Chi me l’aveva dato da leggere quand’ero ventenne voleva certamente vaccinarmi da un vizio che sinceramente non ho mai praticato, l’ultimo dei sette peccati capitali, cioè la pigrizia. In realtà rimasi affascinato da Oblomov, il protagonista dell’omonimo romanzo pubblicato dal russo Ivan A. Gončarov nel 1859. A rendermelo gradevole era la sua naturale serenità e bontà che gli impediva di squarciare il velo dell’inerzia e del sonno per guardare il flusso turbolento degli eventi esterni e di infrangere la nebbia dorata dei suoi sogni. A scuotere quella placida quiete non riuscirà neppure il vivace vento primaverile della bella e giovane fidanzata Ol’ga, né tantomeno il frenetico dinamismo dell’amico Štol’c per il quale vivere era lavorare senza posa.
Memore di questa remota esperienza – che anni dopo avrei rivissuto incontrando la snervante abulia dello Zeno la cui «coscienza» è stata scavata da Italo Svevo – ho letto con curiosità il ben più sintetico Elogio della pigrizia, arditamente proposto da un noto moralista e sociologo, un sacerdote docente a Lovanio, Jacques Leclercq (1891-1971), testo proposto come lectio per la sua ammissione tra i membri della Libera Accademia del Belgio (di lui abbozza, in appendice all’Elogio, un intenso ritratto un altro importante sociologo, Enzo Pace). Subito egli sottolinea l’«illogismo» della scelta perché è contraddittorio «tribolare a limar frasi che si assestano faticosamente, per cantare la dolcezza e la virtù dell’indolenza», quando sarebbe bastato un telegramma di scuse e di ringraziamento all’Accademia, rimanendo tranquillamente sprofondati in una poltrona con un bel libro da leggere.
In un’epoca di frenesia com’è l’attuale, quando con orgoglio si dice di poter da Roma volare a Parigi in mattinata, tenere una conferenza e rientrare a sera (ahimè, così anch’io ho fatto), tessere la lode della pacatezza quieta è una provocazione. Le riunioni incessanti, le vacanze in colonna con le mani indignate sul volante, le visite turistiche che assommano in un solo giorno musei, monumenti e chiese, le code insopportabili agli sportelli degli uffici (un tempo, per i credenti, anche ai confessionali), il navigare incessante in rete lungo i viali dell’infosfera, il fast food che trasforma il tranquillo pranzo tradizionale in un ingollare istantaneo, la visita al parente malato sogguardando di sottecchi l’orologio: la litania potrebbe a lungo dilatarsi contravvenendo, però, all’attuale necessità di un’«istantanea» per descrivere i fenomeni sociali.
Le pagine di Leclercq sono anch’esse una deliziosa sequenza di quadretti che dimostrano la bellezza e la dolcezza generata proprio dall’esatto contrario della lista (incompleta) sopra formulata. Ecco, allora, il lavoro intarsiato di riposo (anche il Creatore, secondo la Bibbia, ha bisogno di un sabato-domenica festivo), i viaggi sostando a contemplare anche solo un prato o un ruscello, lo stare a lungo di fronte a una tela di un museo o nel silenzio gotico di una cattedrale, il lasciare a parte la mazzetta dei giornali per inseguire la trama di un racconto, il sedersi sotto un albero come Newton o immersi nella vasca come Archimede o sulla terrazza di casa a osservare le stelle come i Magi, l’ascoltare una musica o persino il silenzio, spegnendo il brusio della Babele urbana...
Sono molti quelli che, per reazione a una corrente forsennata di atti, moti, emozioni, impegni, negli ultimi tempi hanno continuato e moltiplicato questo elogio della lentezza, della calma, della sosta, persino della flemma come antidoto dell’anima allo scompiglio della celerità, della rapidità, dell’utilitarismo («il tempo è denaro»). D’altronde, contro lo stress dell’iperattività Pascal nei suoi Pensieri non esitava ad ammonire che «la felicità vera sta solo nel riposo e non nel tumulto» per cui bisognerebbe riservare almeno «un’ora in tutta la giornata per poter pensare a se stessi» (n. 139). Già nell’8 d.C. dal suo esilio cupo sul Mar Nero, Ovidio si consolava dicendo che «gli otia nutrono il corpo e pascolano l’anima» (Epistulae ex Ponto I, 4, 21). Detto questo, però, ci si deve anche interrogare: allora la pigrizia non è più un vizio capitale ma una virtù cardinale?
Ebbene, credo che nell’arcobaleno lessicale di cui è dotato l’italiano si possa scegliere meglio, anche perché «pigro» deriva dal verbo latino piget che denota il vero e proprio fastidio nell’impegnarsi. In pratica esso rimanda allo sfaticato, al lazzarone, al fannullone, al perdigiorno, al lavativo che hanno ben poco da spartire con la pacatezza, la lentezza riflessiva, la calma, la quiete, la ponderatezza. La pigrizia, invece, è la variante dell’accidia: nella tradizione ascetica cristiana orientale l’akedía era un peccato grave perché conduceva a un allentamento delle difese contro i vizi, a uno scoraggiamento che spingeva ad abbandonare l’ascesa erta e irta di ostacoli dei precetti evangelici, adattandosi alla valle ombrosa dell’indifferenza, della mediocrità e della piattezza.
Per questo la virtù che Leclercq esalta non è la pigrizia fatta di ignavia, di abulia, di apatia, di svogliata neghittosità, di narcolessia, bensì quello che Plinio il Giovane definiva il dulce otium operoso (Epistulae I, 9, 6), tenendo conto che il verbo latino vacare non rimanda a una vacanza inerte ma a un «impegnarsi» in un’opera. Il libro biblico dei Proverbi è tutto intessuto di ritratti di pigri bollati con veemenza e sarcasmo: eppure si era in un contesto che – come accade ancor oggi, forse per ragioni geoclimatiche – amava la contemplazione, la sosta, il ritmo allentato. Anche Gesù esalta il servo che ha saputo investire il capitale di talenti a lui affidato, a differenza del poltrone che l’ha solo custodito sotterrandolo (Matteo 25,14-30).
San Paolo, poi, che certamente non era pigro (basta solo seguire i suoi viaggi negli Atti degli apostoli), confessa ai cristiani di Tessalonica di «non aver mai vissuto oziosamente, mangiando il pane gratuitamente, ma di aver lavorato con fatica notte e giorno». Perciò la sua regola è chiara: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2Tessalonicesi 3,7-10). Una regola che compare addirittura nella Costituzione sovietica del 1918 e nell’inno comunista Bandiera rossa: «E noi faremo come la Russia: chi non lavora non mangerà». E come non ricordare il Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano? Concludendo, se la lentezza calma e pacata può essere una bella virtù da elogiare, la pigrizia accidiosa rimane un vizio da condannare, come fa Dante nei confronti del suo vicino di casa, lo svogliato liutaio Belacqua dagli «atti pigri e le corte parole» (Purgatorio IV, 132).
Elogio della pigrizia, Jacques Leclercq
Nota di lettura di Enzo Pace, Dehoniane, Bologna, pagg. 54, € 6,50
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