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Quella volta che l’«uomo cavallo» Zátopek regalò la…

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un libro racconta l’atleta mito

Quella volta che l’«uomo cavallo» Zátopek regalň la sua medaglia d’oro


Olimpiadi di Helsinki.  Emil Zátopek in testa, seguito dal francese Alain Mimoun e dal tedesco Herbert Schade,    durante la finale dei 5mila metri, il 26 luglio 1952. Nella sua carriera Zátopek, quattro volte campione olimpico (1948: 10mila metri; 1952: 5mila, 10mila e maratona), stabilě  18  record mondiali (Afp)
Olimpiadi di Helsinki. Emil Zátopek in testa, seguito dal francese Alain Mimoun e dal tedesco Herbert Schade, durante la finale dei 5mila metri, il 26 luglio 1952. Nella sua carriera Zátopek, quattro volte campione olimpico (1948: 10mila metri; 1952: 5mila, 10mila e maratona), stabilě 18 record mondiali (Afp)

Lo avevano soprannominato «l’uomo cavallo» ma non era un centauro. E tuttavia, a vederlo correre, sembrava una incongrua creatura messa insieme dal dottor Frankenstein. A ogni falcata, durante le sue micidiali progressioni – che nel corso di una gara potevano essere dieci, cinquanta, cento – le gambe disegnavano nell’aria un elegante semicerchio; mentre il busto e le braccia erano quelle del naufrago in lotta con una piovra; e la testa biondiccia e un po’ spelacchiata ciondolava sopra la spalla in cerca di sollievo.

Si chiamava Emil Zátopek ed era nato nel 1922 in Moravia, come Sigmund Freud. In quindici anni di gare aveva conquistato quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi: tre (5mila metri, 10mila metri e maratona) a Helsinki nel ’52; e una, sui 10mila, a Londra nel ’48. Aveva vinto anche tre ori agli Europei (5mila e 10mila nel ’50, e 10mila nel ’54) oltre ad aver stabilito, tra il ’49 e il ’55, la bellezza di diciotto record del mondo su varie distanze.

Era partito dal fartlek o interval training inventato dagli svedesi e ne aveva esasperato l’applicazione portando la frequenza e la durata degli allenamenti settimanali a limiti considerati disumani. In pratica aveva trasformato le gare di fondo (10mila e maratona) in competizioni di mezzofondo prolungato, procedendo a strappi in modo da asfissiare chiunque si attentasse a seguirlo.

Zátopek aveva cominciato a gareggiare nell’anno di scarsa grazia 1941, in un Paese invaso dai tedeschi, e aveva finito di correre nel 1957, quando la Cecoslovacchia, liberata dai russi nel ’45, era una colonia di Mosca. Col tempo, e con le tante vittorie che facevano molto comodo alla propaganda del regime comunista, era diventato tenente colonnello dell’esercito. Vi era entrato alla fine della guerra, un po’ perché, da buon patriota, pensava di poter essere utile alla causa della ritrovata indipendenza; e un po’– come ebbe a dire in un’intervista il suo amico Jindřich Roudný, a sua volta campione europeo dei 3mila siepi – perché quelli erano tempi in cui, arruolandosi, un giovane atleta poteva sperare di nutrirsi a sufficienza.

Quando si afferma che Zátopek č stato uno dei piů grandi atleti di sempre, bisogna ricordare quanto hanno scritto Daniel Liebmann e Dennis Bramble in un libro che si intitola The Evolution of Marathon Running: «Lo stupore del pubblico di oggi davanti ai tempi degli scattisti sui 100 e i 200 č lecito ma merita una precisazione. La velocitŕ massima lanciata di Usain Bolt, per fare un esempio, č intorno ai dieci metri al secondo, ben al di sotto della velocitŕ che raggiunge un cane e persino un piccolo scoiattolo».

La veritŕ č che l'uomo č uno sprinter scadente rispetto a molti altri animali: «Eravamo cacciatori e a renderci speciali č sempre stata la capacitŕ di correre le lunghe distanze. I maratoneti viaggiano infatti a una media di sei metri al secondo su di un percorso di 42 chilometri, che sarebbe proibitiva per tutti gli altri mammiferi, compresi i cavalli». Alla cui specie, con buona pace dei retori e dei poeti, Zátopek – bisogna concludere – non apparteneva nemmeno per metŕ.

Era perň di sicuro un uomo di ferro, per dirla con un’altra immagine bolsa. Meglio: era un asceta che diventava davvero se stesso quando si toglieva la divisa e mandava il proprio corpo a verificare i limiti dell’umano. Un animale di razza e un campione perché sapeva che č importante vincere contro gli avversari piů che contro il cronometro.

“Quando venne il momento della partenza, Clarke ricevette da lui un pacchetto legato con lo spago, insieme alla raccomandazione di non aprirlo prima che l'aereo si alzasse in volo. Conteneva una delle sue medaglie d'oro”

 

Ma come tutti quelli che amano le cose che fanno piů di se stessi, era anche un uomo generoso e leale, capace di riconoscere i meriti altrui. Lo rivela un episodio che Rick Broadbent, giornalista inglese esperto di atletica leggera, racconta nel suo Emil Zátopek. Una vita straordinaria in tempi non ordinari, edito da 66thand2nd. Si tratta della visita, quasi un pellegrinaggio, dell’australiano Ron Clarke a Praga nel luglio 1966. Zátopek aveva da tempo smesso di correre e Clarke era un mezzofondista australiano che aveva collezionato fino a quel momento ben diciassette record mondiali senza perň mai vincere un’Olimpiade.

Ebbene, dopo avere avuto l’onore di allenarsi per qualche giorno con l'uomo che venerava come un idolo, e dopo una visita al centro della cittŕ in cui si era reso conto che Zátopek era considerato un eroe dalla gente e dagli stessi poliziotti; quando venne il momento della partenza, Clarke ricevette da lui un pacchetto legato con lo spago, insieme alla raccomandazione di non aprirlo prima che l'aereo si alzasse in volo. Conteneva una delle sue medaglie d'oro.

Nelle 300 pagine del suo libro, Broadbent ha modo di ricordare, attraverso altrettante divagazioni, le figure dei grandi atleti dell’epoca. Dagli eredi del leggendario finlandese Paavo Nurmi al belga Gaston Reiff, e dal britannico Gordon Pirie all’algerino naturalizzato francese Alain Mimoun, fino al sovietico Vladimir Kuts. Sullo sfondo, gli orrori di un regime – processi farsa, torture e impiccagioni – di cui per motivi di spazio, e non solo, non mette conto parlare al cospetto di un uomo che ha onorato la specie a cui noi tutti apparteniamo.

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