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L’Europa, un orticello globale

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Ambiente

L’Europa, un orticello globale

Illustrazione di Franco Matticchio
Illustrazione di Franco Matticchio

Talvolta è il quotidiano a riservarci le maggiori sorprese. Un europeo medio si leva dal letto (le cui lenzuola sono di cotone) per fare una rapida doccia (dove l’acqua scorre in tubature di rame) lavandosi con una saponetta (a base di olio di palma) per poi bere una bevanda (a base di caffè o the), e fare colazione con un pasto a base di cereali (zuccherati), o probabilmente carne (a base di soia) e un sandwich a base di formaggio, prima di dirigersi al lavoro su un veicolo a motore (il cui combustibile è petrolio raffinato). Ciò che definisce un giorno qualsiasi nella vita di milioni di Europei – un giorno come tanti, come quelli che avete vissuto per anni senza rifletterci sopra – ha in effetti un che di miracoloso. Dopo tutto, quasi niente di ciò che ha reso piacevole la vostra giornata è originario del continente europeo. Il cotone, quasi certamente, proveniva da una piantagione cinese, l’olio di palma dalla Malesia, e il rame da una miniera congolese. Vi sono alte probabilità che il caffè fosse stato coltivato in Kenya, il the in India, lo zucchero a Cuba e la soia in Brasile, mentre il petrolio potrebbe essere stato estratto dalle sabbie dell’Arabia Saudita.

Per quasi tutti noi, queste cose rientrano nella routine quotidiana: ci sostengono, rendendoci la vita confortevole, e potrebbero addirittura contribuire a definire la nostra identità come “bevitori di caffè”, come “gente che segue la moda”, ma non bisogna dimenticare che queste cose sono anche merci. Agricoltori, minatori, operai attivi in vari settori le producono, diverse aziende e finanziarie le immettono in un circuito globale che si situa al centro dell’economia moderna e definisce il nostro stile di vita. Attraversando frontiere le merci mettono in relazione genti diverse intorno al mondo, pur se non sempre quelle connessioni sono visibili. Esattamente come la coltura di certe sostanze, anche l’estrazione di quelle merci tende ad avvenire molto lontano da dove queste vengono poi consumate, per cui l’impatto sociale ed ecologico della loro estrazione è evidente solo a notevole distanza dai luoghi di origine. La stragrande maggioranza degli Europei vive in aree dove non si percepiscono le conseguenze dei loro consumi. La dirigenza dell’Unione Europea ha cominciato a preoccuparsi di questo stato di cose e due documenti recentemente congedati da Bruxelles – uno studio di fattibilità su eventuali azioni contro la deforestazione globale e un altro sull’impatto ambientale dell’uso di olio di palma – sostengono che il consumo di risorse in Europa è all’origine di danni ambientali a livello globale. I documenti sollecitano l’Unione Europea a prendere atto del suo impatto ecologico globale, senza dimenticare anche quelle aree il cui ambiente è stato modificato per venire incontro ai bisogni alimentari europei. L’orticello che soddisfa i bisogni dell’Europa – sostengono i due documenti – è globale. E, in effetti, le cose stanno proprio così.

È senza dubbio importante sensibilizzare un pubblico più ampio e la cerchia dei politici rispetto alle istanze di una geografia delle risorse. E tuttavia si tratta di una questione che trascende l’impatto dell’olio di palma e della soia sulla deforestazione, sulla perdita di biodiversità, e sull’emissione di gas serra. Il consumo di risorse da parte dell’Europa e il suo impatto costituiscono una questione molto più ampia, e il concetto dell’Unione Europea di sostenibilità non riesce a cogliere adeguatamente le implicazioni di una lunga storia di saccheggio ecologico e la profonda ineguaglianza sociale che sottostà all’uso europeo di risorse e al suo sviluppo.

In effetti questi documenti prodotti da Bruxelles – e, più in generale, il dibattito pubblico sull’olio di palma e sulla soia – sostengono una prospettiva secondo la quale stiamo vivendo una nuova fase di instabilità. I luoghi di produzione e le forme delle merci sono mutati nel corso del tempo, anche se il consumo resta centrato in Europa, nell’America settentrionale e, più di recente, in Cina. Gli esperti di scienze sociali si riferiscono a questo fenomeno come all’espansione delle “frontiere delle merci”. Ricostruendo l’estensione di tali confini a livello globale a partire dal 1500, si sono resi conto che le frontiere delle merci non sono né stabili né neutrali: al contrario, si spostano senza posa, sulla spinta di nuovi capitali continuamente alla ricerca di risorse e mercati ancora “vergini”. Le frontiere dunque trasformano in qualcosa d’altro gli insediamenti dove esse vengono a trovarsi, rilocando le popolazioni autoctone e rivoluzionando gli ecosistemi locali.

Diamo un’occhiata a una delle frontiere di merci più antiche d’Europa, quella dello zucchero. Prima coincideva con le isole del Mediterraneo meridionale, la cui produzione nel corso del XV secolo si spostò nelle isole al largo della costa africana, e infine sull’altro versante dell’Atlantico nelle nuove colonie europee dei Caraibi. Gli Europei conquistarono enormi territori in queste aree, sterminando o costringendo a migrare le etnie indigene, e trasferendo con la forza milioni di abitanti dalle coste dell’Africa settentrionale alle Americhe per abbattere foreste e trasformare luoghi come Santo Domingo, Le Indie occidentali danesi e Cuba in piantagioni di canna da zucchero.

L’episodio più cruento di queste vicende ebbe luogo sulla piccola isola di Barbados. A metà del XVII secolo agenti commerciali olandesi ed inglesi – grazie al lavoro degli schiavi – avevano trasformato l’isola in una serie di piantagioni di canna, al punto che Barbados si vide costretta a importare tutte le provvigioni necessarie alla sua sopravvivenza. La maggior parte degli schiavi africani moriva di stenti per il lavoro estenuante e, quando qualcuno di essi cercava di ribellarsi, rischiava di essere squartato, bruciato vivo, o esposto in gabbie d’acciaio per poi morire di fame dinanzi agli occhi dei propri familiari. Negli stessi anni, mercanti famosi e istituti di credito accumularono ingenti ricchezze dalla produzione dello zucchero messa in atto con lo sfruttamento di una manodopera di schiavi.

Il sistema di produzione dello zucchero entrò in crisi tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. I lavoratori nelle piantagioni si ribellarono così frequentemente e con tale forza allo schiavismo da far collassare l’intera filiera di questa merce. A causa di questa crisi irreversibile la frontiera dello zucchero si spostò in luoghi come le Fiji e le Mauritius, dove la manodopera impiegata consisteva prevalentemente in Indiani e Cinesi a contratto, sottoposti a condizioni lavorative comunque molto affini alla schiavitù.

L’esempio dello zucchero dimostra che l’emergere del capitalismo industriale in Europa – così spesso celebrato per il suo impegno a favore dei diritti della proprietà – produceva in realtà enormi sacche di povertà e sfruttamento a livello planetario. E la propensione ad espandersi del capitalismo – lodata come vettore di libertà – in realtà si affermava grazie a sistemi profondamente coercitivi.

Per quanto ciò non emerga nei documenti prodotti dall’Unione Europea, questo stato di cose permane in prossimità delle frontiere contemporanee di certe merci. Al giorno d’oggi sono le multinazionali – non i mercanti o i proprietari delle piantagioni – ad emergere come i principali coordinatori nell’espansione delle frontiere in questione, collaborando con governi, banche, istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e organizzazioni finanziarie e filantropiche. Per quanto tali frontiere legate alle merci siano ormai molto antiche, c’è in esse qualcosa di molto recente: oggi, l’impatto globale di ciò di cui ci nutriamo, utilizziamo e su cui facciamo affidamento è sempre più visibile a un pubblico più vasto. In tale contesto, istituzioni come l’Unione Europea vogliono rendere l’uso delle risorse da parte dell’insieme dei Paesi europei più sostenibile. E tuttavia sviluppare delle catene produttrici di merci “sostenibili” nelle quali le aziende seguono criteri adottati spontaneamente per produrre merci (come è tipico di questa tipologia più care) non basta. Né sarebbe sufficiente affidare tutte le nostre speranze per un futuro migliore alle scelte individuali del consumatore europeo.

Invece, dovremmo capire che la non sostenibilità del momento è legata alla lunga storia dell’espansione della frontiera di quella merce: come dunque il presente è una conseguenza del passato, ma anche come il presente offre delle possibilità per cambiare rotta.

Un buon punto di partenza sarebbe quello di rendere più visibili le popolazioni residenti in quei luoghi “remoti” da cui riforniscono i mercati e lo stile di vita europeo. Gli agricoltori del Burkina Faso si oppongono alle sementi geneticamente modificate della Monsanto. Gli indigeni del Perù premono per una legislazione più vincolante sulle compagnie minerarie.

Le comunità che risiedono in prossimità dei rifiuti tossici dell’industria e dell’agricoltura industriale in varie parti del mondo stanno lottando per una nuova “giustizia ambientale”. I popoli si stanno organizzando in modo innovativo e stanno utilizzando gli strumenti a loro disposizione per fare in modo che governi e multinazionali siano responsabili delle loro azioni. Ascoltando queste voci l’Unione Europea può elaborare una soluzione inclusiva e a lungo termine per i problemi ambientali di carattere globale. Poiché noi tutti vogliamo un futuro che preveda condizioni di vita più degne e migliori per tutti, e non solo per coloro così fortunati da iniziare ogni nuovo giorno godendo i frutti della secolare espansione europea nel mondo.

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