Cultura

La primavera di Dubček morì d’estate

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La primavera di Dubček morì d’estate


Repressione. Cittadini di Praga circondano i carri armati sovietici il 21 agosto 1968
Repressione. Cittadini di Praga circondano i carri armati sovietici il 21 agosto 1968

Il 12 agosto 1968 giunse a Karlovy Vary, cittadina termale della Cecoslovacchia, Walter Ulbricht, che dal 1950 deteneva il potere assoluto nel regime comunista della Repubblica democratica tedesca. Era venuto per incontrare Alexander Dubček, eletto il 5 gennaio segretario generale del partito comunista cecoslovacco. Dubček considerava «l’uomo dalla celebre barbetta da capra», come lo descrive nella sua autobiografia, «un dogmatico fossilizzato già ai tempi di Stalin», e lo trovava personalmente «ripugnante». E ancor più ripugnante dovette considerarlo durante la sua visita, avvenuta mentre Dubček era impegnato in un asperrimo confronto con Leonid Brežnev, l’onnipotente capo dell’Unione sovietica, ostile al nuovo corso intrapreso dal partito comunista cecoslovacco per realizzare un «socialismo dal volto umano». Altrettanto ostili erano Ulbricht e i despoti comunisti di Polonia, Ungheria e Bulgaria. Da otto mesi, infatti, Dubček aveva avviato un esperimento di riforma del regime comunista, per affrontare la grave crisi economica e sociale, acuita dall’asfissia d’ogni vitalità culturale, che stava degradando lo Stato cecoslovacco, nato alla fine del 1918 dalla unione fra la nazione ceca e la nazione slovacca, dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico,

Da tale condizione, Dubček voleva risollevare il suo Paese, facendo approvare dal partito comunista, il 5 aprile 1968, un «programma d’azione» elaborato dalla corrente riformatrice, partendo dal presupposto che la nascita della Cecoslovacchia era stata «un progresso importante per lo sviluppo nazionale e sociale delle due nazioni». Il regime socialista, instaurato nell’ambito della comunità degli Stati socialisti guidata dall’Unione sovietica, aveva voluto proseguire sulla via dello sviluppo nazionale e sociale, eliminando «lo sfruttamento capitalistico e le ingiustizie sociali che ne derivavano». Questo era nei propositi: nella realtà, denunciava Il programma d’azione del Partito comunista di Cecoslovacchia, era avvenuta la «deformazione del sistema politico», dovuta alla «posizione monopolistica del potere in mano ad alcuni elementi», che aveva condotto «alla paralisi dell’iniziativa a tutti i livelli, all’indifferenza, al culto della mediocrità ed ad un esiziale anonimato», a una persistente crisi economica e sociale, aggravata da «un meccanismo che creava l’impotenza e la frattura tra la teoria e la pratica», provocando una generale degradazione morale e culturale.

L’unico rimedio per sanare la crisi e consolidare il socialismo, sostenevano Dubček e i riformatori, era l’attuazione di un nuovo modello di «democrazia socialista», ispirata al marxismo-leninismo, promossa e guidata dal partito comunista, il quale, però doveva rinunciare al monopolio del potere, alla prevaricazione sullo Stato, al dogmatismo; restaurare i diritti civili e la libertà di espressione, di associazione, di iniziativa. Tutto questo, precisava il programma, doveva essere attuato senza rimettere in discussione in politica estera l’adesione al Patto di Varsavia, che nel 1955 aveva subordinato le democrazie alla supremazia della Russia.

Avevano però ragione il capo dell’Urss e i despoti dei regimi satellitari a considerare la democrazia socialista di Dubček una eresia pericolosissima, che avrebbe potuto diffondersi fra i popoli assoggettati al totalitarismo comunista. Al di là del linguaggio cauto, infatti, il programma dei riformatori era un attacco radicale al «socialismo reale» e al suo corposo, immenso sistema di dominio, fondato sul monopolio del potere concentrato nelle mani dell’oligarchia privilegiata dei partiti comunisti e delle loro burocrazie. Contro un attacco così radicale, i despoti comunisti potevano concepire un solo rimedio altrettanto radicale, già sperimentato nel 1956 in Ungheria con efficaci risultati: stroncarlo con la forza delle armi.

Così avvenne. Nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, truppe con carri armati dell’Unione sovietica, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Ungheria e Bulgaria, invasero la Cecoslovacchia. Dubček e gli altri governanti furono arrestati e trasportati a Mosca dove furono costretti, racconta Dubček, a fare «concessioni dolorose e umilianti per evitare il peggio», cioè un massacro della popolazione ceca e slovacca. Al potere in Cecoslovacchia furono insediati nuovamente i comunisti proni agli ordini del Cremlino. I riformatori, costretti al silenzio, furono diffamati e perseguitati come controrivoluzionari in combutta con l’imperialismo occidentale. Quasi mezzo milione furono gli iscritti espulsi dal partito; decine di migliaia abbandonarono il Paese. La «primavera di Praga», come fu chiamata, era stata stroncata.

Dubček, inviato come ambasciatore in Turchia, rientrato in patria ed espulso dal partito nel 1970, trovò lavoro come manovale, vivendo per venti anni sotto un controllo poliziesco quotidiano. Ebbe molto tempo per meditare sulla fine tragica della «primavera di Praga», che lui aveva coraggiosamente avviato, pensando sinceramente, col suo generoso e forse ingenuo idealismo, di poter realizzare un «socialismo dal volto umano» in un Paese accerchiato dal socialismo reale, che era nel 1968 possente e dominante, e che di «umano » in tutte le sue attuazioni, aveva soprattutto la malvagità e la volontà della più spietata oppressione.

I despoti del socialismo reale stroncarono la «primavera di Praga», per evitare che divenisse una calda estate, e incendiasse gli sclerotizzanti regimi del totalitarismo comunista. Ma l’ingenuo idealista Dubček ha avuto la rivincita, assistendo alla fine del socialismo reale. Nel 1989, fu eletto presidente dell’Assemblea nazionale nella rinata Repubblica democratica cecoslovacca, che lui, slovacco, tentò di mantenere unita. Un mortale incidente d’auto, il 14 novembre 1992, non lo fece assistere alla separazione fra la Repubblica ceca e la Repubblica slovacca.

Fu dunque alla fine un vincitore? Certo, lo fu, personalmente. La sua sfortunata impresa politica ha consegnato l’idealista Dubček alla Storia, con l’aureola di una straordinaria dignità. Ma è stato comunque sconfitto il «socialismo dal volto umano», coinvolto nella rovina del socialismo reale, che è stato sostituito dal nazionalismo illiberale nei paesi dove aveva dominato. Di socialismo dal volto umano non si parla più in tempi di «democrazia recitativa». Tuttavia, gli idealisti possono tentare una nuova impresa: realizzare una «democrazia dal volto umano», che dell’umano abbia anche, con comportamento conseguente, la mente e il cuore.

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