Ha fatto il giro del mondo la notizia della scoperta da parte di un gruppo di scienziati australiani e francesi che le api comprenderebbero il concetto di «zero». Qualche sopracciglio si è sollevato, a far mostra di perplessità. Lo zero, ma come? Proprio quello dei matematici? Come sempre nella scienza saranno necessari controlli e verifiche, ma è il caso di fare chiarezza su che cosa questi risultati vogliono dire.
Come racconta nel suo bel libro Numeri (Il Mulino, Bologna, 2015) lo storico della matematica Umberto Bottazzini, è probabile che siano stati gli astronomi babilonesi, tra il IV secolo a.C e il I secolo a.C, a introdurre un simbolo specifico per lo zero. L’obiettivo era eliminare le ambiguità inerenti l’uso di spazi vuoti per denotare l’assenza di una potenza di sessanta nella rappresentazione sessagesimale dei numeri.
L’introduzione tardiva di un simbolo per lo zero nella storia del pensiero matematico riecheggia le difficoltà che i bambini incontrano a scuola. C’è una fase in cui, appresa la recitazione della routine del conteggio, resta comunque poco chiaro ai bambini che il numero più piccolo sia lo zero e non l’uno. Tuttavia quando hanno a che fare con numerosità – reali collezioni di elementi o di oggetti – anziché con i simboli per i numeri, i bambini possono capire benone che «nulla» è meno di uno.
Bisogna intendersi con le parole e con i concetti. Le api (così come molti altri animali) padroneggiano una nozione pre-simbolica dello zero, un’idea intuitiva di insieme vuoto, che è cosa ben diversa da un simbolo per lo zero, come quello che possiamo rintracciare, ad esempio, nell’antico testo indiano di Bakhsali, un manoscritto composto da pezzi di corteccia di betulla con le procedure aritmetiche utilizzate dai commercianti della via della seta, che contiene centinaia di zeri. Prima di sviluppare un simbolo per lo zero, tuttavia, è necessario possederne un concetto quantitativo, una nozione di nulla come numero o insieme vuoto.
Per capire in quale senso questa nozione di insieme vuoto sia quantitativa consideriamo come è stato condotto l’esperimento con le api. Sopra uno schermo sono collocati dei pannelli che contengono un numero variabile di quadratini, con dimensioni differenti e disposti a casaccio. Su un pannello vi sono ad esempio tre quadratini, su un altro quattro, su un altro ancora sei… Le api possono ottenere come premio un po’ di acqua zuccherata atterrando su un certo pannello seguendo una semplice regola. Si tratta di scegliere sempre il pannello che contiene il numero minore di quadratini (si possono ovviamente addestrare le api anche ad atterrare sul pannello che ne contiene il numero maggiore, ma questo adesso non ci interessa). Per essere certi che gli animali rispondano alla numerosità in quanto tale, cioè alle proprietà discrete e contabili degli elementi e non a quelle continue, come l’area o il perimetro occupato dai quadratini, è necessario effettuare i controlli del caso, variando sistematicamente la grandezza e la densità relativa dei quadratini. Fatte le cose per bene, si può procedere all’esecuzione del test.
Le api hanno imparato a scegliere il pannello che contiene il numero minore di quadratini. Lo zero ha però valore inferiore a uno. Perciò se vengono mostrati un pannello con un solo quadratino e un pannello vuoto (mai veduto prima) le api dovrebbero scegliere il pannello vuoto. Questo è precisamente ciò che accade, ma c’è anche una seconda osservazione che può esser condotta. Se questo zero pre-simbolico è davvero una quantità, allora esso si troverà a differire da altre quantità in maniera prevedibile a seconda della loro distanza: zero è più lontano da due di quanto non lo sia da uno, e ancor di più lo sarà da tre, da quattro e così via… In perfetto accordo con ciò, le api mostrano una percentuale di scelte corrette che aumenta via via con l’aumentare della distanza: sono cioè molto brave a discriminare lo zero da sei, un po’ meno a discriminare lo zero da cinque, un po’ meno lo zero da quattro, eccetera.
Vien da chiedersi in cosa difetti lo zero quantitativo delle api da uno zero simbolico. La risposta è che quantitativo non significa «preciso». Lo zero dell’ape (o della scimmia o del bambino di età prescolare) è uno zero approssimativo. Viene colto tanto più facilmente tanto più è grande la differenza lungo la linea mentale delle numerosità. Con i simboli, invece, possiamo condurre un’aritmetica precisa: due meno zero fa esattamente (e non approssimativamente) due, e trecentocinquantasette più zero fa esattamente (e non approssimativamente) trecentocinquantasette. Per l’ape, ma anche per noi quando usiamo il sistema approssimato del numero, la precisione dipende invece dalla grandezza delle numerosità. Quando dobbiamo stimare a colpo d’occhio una numerosità, siamo precisi con le piccole numerosità (con due o tre o quadratini ci azzecchiamo quasi sempre), ma siamo invece imprecisi con le grandi numerosità (con trecentocinquantasette quadratini a volte diremo che sono circa trecento a volte circa quattrocento…). Questo spiega probabilmente la ragione dell’invenzione relativamente recente di un’aritmetica precisa in alcune popolazioni di esseri umani (spesso ce ne dimentichiamo, ma vi sono ancora oggi popolazioni tradizionali che se la cavano benone con il solo senso approssimato del numero, senza possedere simboli per i numeri). L’aritmetica precisa serve infatti quando si debbono condurre scambi e transazioni esatte che coinvolgono grandi numerosità, un’eventualità che deve aver accompagnato il passaggio da un’economia basata sulla caccia e la raccolta a una basata sull’allevamento e l’agricoltura.
Intendiamoci, non è che la rappresentazione non quantitativa dello zero, nel senso di «assenza», sia meno interessante. Sappiamo che i bambini prima di poter parlare e così pure gli altri animali sono in grado di rappresentarsi mentalmente la presenza degli oggetti, anche quando questi non siano più disponibili agli organi di senso. Se gli animali sappiano però rappresentarsi l’assenza, il nulla, non in un senso quantitativo, cioè come il valore più piccolo dell’uno, ma in una maniera categoriale, l’assenza in quanto distinta dalla presenza, non è chiaro.
Ci incanta che l’ape con il suo milione scarso di neuroni afferri la nozione dell’insieme vuoto. La rappresentazione delle
quantità che essa possiede probabilmente è basata su circuiti nervosi non dissimili da quelli che sostengono la nostra stessa
rappresentazione delle numerosità. Ma gli oscuri nostri antenati che per primi stabilirono una relazione arbitraria tra certi
simboli esterni e l’insieme vuoto e le altre quantità numerabili ci hanno fatto dono di una possibilità che all’ape è probabilmente
preclusa, quella di concepire il vuoto e il suo orrore o l’indicibile infinito.
Numerical ordering of zero in honeybees
Scarlett Howard, Adrian Dyer, Aurore Avarguès-Weber et al,
Science, 2018 DOI: 10.1126/science.aar4975
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