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Dossier | N. 19 articoliMostra del cinema di Venezia, la 75esima edizione

Venezia '75: troppo televisivo «Opera senza autore» di Florian Henckel von Donnersmarck

Una scena di «Opera senza autore» diHenckel von Donnersmarck (Ansa)
Una scena di «Opera senza autore» diHenckel von Donnersmarck (Ansa)

Il nome di Florian Henckel von Donnersmarck è legato a quel film indimenticabile, anche in certo eccessivo romanticismo, che era “Le vite degli altri” del 2006, che conquistò l'Oscar come migliore film straniero nel 2007 e ricevette anche un nostro David di Donatello nello stesso anno per il miglior film europeo. Con ”Opera senza autore” Henckel von Donnersmarck sembra tornato alle stesse atmosfere del passato, da cui era deragliato con il fallimentare “The tourist”, interpretato da Angelina Jolie e Johnny Depp.

Anche la sua ultima pellicola, in concorso oggi a Venezia, è distante dalla magia de “Le vite degli altri” probabilmente proprio perché si tiene lontano dal messaggio che vorrebbe trasmettere con il suo film: l’artista deve lavorare su situazioni che conosce bene o da cui si sente inevitabilmente attratto.

Ne “Le vite degli altri” aveva raccontato la Berlino della guerra Fredda prima della caduta del muro, situazione che il regesta tedesco, classe 1973, aveva interiorizzato vivendola sulla propria pelle e nei racconti di chi gli stava accanto. La storia del capitano della Stasi, incaricato di spiare nel 1984 un famoso drammaturgo, gli era congeniale ed era ben girata, seppure senza impennate di originalità e con alcune concessioni melodrammatiche.

Con la nuova pellicola torna in Germania sotto il nazismo a raccontare la storia del pittore Kurt Barnert (Ton Schilling) dalla sua infanzia, funestata dalla pazzia eugenetica, che porta prima a far sterilizzare e poi alla morte l'amatissima zia Elisabeth (Saskia Rosendahl), afflitta da disturbi mentali. A decretare la fine della zia, il professor Seeband (Sebastian Koch), che sopravvive al nazismo riciclandosi nel socialismo e riappare nella vita di Kurt in circostanze del tutto imprevedibili. La pellicola, della durata di oltre tre ore, ispirata al pittore tedesco Gerhard Richter, cerca di riflettere sul significato dell'arte, sulla malvagità che non riesce a cancellare il talento, sulla resilienza. Dopo una prima parte eccessivamente pedagogica ed esplicativa il film diventa più coinvolgente, ma rimane l'interrogativo sul perché questa pellicola sia in competizione alla Mostra del cinema, sembrando più adatta (anche per la durata di oltre tre ore) a una miniserie televisiva per la regia piatta e per il poco spazio lasciato al non detto, compatibile con un ascolto più distratto.

Fuori concorso, invece, uno dei grandi vecchi del cinema, Frederick Wiseman, con “Monrovia indiana”, in cui il regista statunitense, premio Oscar alla carriera nel 2017, oltre che Leone d'oro sempre alla carriera tre anni prima, si infila a Monrovia, cittadina di 1400 abitanti nel Midwest, svelandone gli ingranaggi. Ne racconta le istituzioni religiose, il mondo dell'agricoltura e dell'allevamento, le scuole, l'amministrazione cittadina e quelle che sono le “istituzioni altre” come il barbiere, la pizzeria, l'artista del tattoo. La macchina da presa indugia lungamente sui suoi soggetti senza dare un giudizio, provocando nello spettatore sentimenti di commozione, ilarità e vicinanza, con un omaggio onnipresente alla bellezza della Natura: un ritratto autentico del cuore dell'America nella sua follia, ingenuità, incanto.

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