Talvolta i luoghi comuni hanno una loro fondatezza, una base di verità. Ma non è il caso di quella diffusa opinione su una certa presunta aridità del diritto. Come se il diritto fosse per sua natura insensibile al lato emotivo della vita, del mondo, delle situazioni. Come se le norme della legge fossero, e potessero essere, solo una fredda regolamentazione della realtà; e come se potesse appartenere solo ad altri – ai letterati, agli psichiatri, agli antropologi – uno sguardo caldo, partecipe, empatico. Come se, in definitiva, non esistessero zone di contatto tra il diritto e la letteratura, la psichiatria, l’antropologia. Tutto questo non corrisponde al vero.
La verità è che tutto dipende, invece, dal modo in cui il diritto venga inteso, studiato, applicato. Come per ogni cosa, anche
per il diritto è solo una questione di respiro e di sguardo, di disponibilità a rompere gli argini, a contaminarsi, ad aprirsi,
a mettere in relazione fra loro i diversi saperi. E semmai è vero il contrario: forse nessuno come il giurista è chiamato
a vivere altrettanto intensamente la vita, a penetrarne l’essenza e gli umori, a cercarne le verità più nascoste, anche solo
per la semplice ragione che – per regolamentare la realtà – è prima necessario comprenderla a fondo. «Non basta studiare e
conoscere le leggi», sosteneva Salvatore Satta, bensì è necessaria una «perpetua confessione», una perpetua «esperienza di
sé».
Lo sguardo sui diritti dei più fragili
Paolo Cendon rappresenta un esempio altissimo, fra i più eccelsi oggi in Italia, di giurista dal respiro lungo, dallo sguardo
largo. Docente di diritto privato a Trieste, da molti anni dedica il suo impegno ai temi della fragilità in ogni sua possibile
declinazione, a partire dalla tutela dei diritti dei malati di mente.
Come si sa, Trieste è un posto simbolico da questo punto di vista, perché qui, nel manicomio di San Giovanni, negli anni Settanta
del secolo scorso aveva operato Franco Basaglia; e lo stesso Cendon aveva preso parte, fornendo il suo contributo, a quella
stagione di rivoluzioni e di riforme, che aveva visto la chiusura dei manicomi e il riconoscimento ai malati di mente di una
dignità fino ad allora inimmaginabile. Ora, nel suo ultimo libro – «I diritti dei più fragili» (Rizzoli, 228 pp., 22 euro) – Cendon ripercorre quegli anni, che per lui erano stati, si potrebbe dire, anni di apprendistato: giovane professore universitario,
aveva capito, grazie al confronto diretto con la sofferenza degli ospiti di un Centro di salute mentale (e all'esperienza
di sé che ne era maturata), che quello che gli stava più a cuore era cercare una «sintonia fra le istanze della debolezza,
sul piano antropologico, e tutele d’ordine privatistico». Poteva il diritto mettersi al servizio delle esigenze di cura dei
soggetti deboli, svantaggiati? Erano sufficienti i riferimenti già contenuti nel Codice civile e nelle leggi, o bisognava
immaginarne di nuovi, di diversi?
A questi temi Cendon avrebbe dedicato i suoi anni successivi, la preponderanza delle sue riflessioni e dei suoi studi. A lui devono molto l’emersione e il consolidamento, nella giurisprudenza italiana, dei concetti di “danno morale”, di “danno biologico”, di “danno esistenziale”, quali forme risarcitorie che tengano conto delle dimensioni emotive e relazionali della vita. Sempre a lui si deve l’introduzione, nel nostro ordinamento, della figura dell’amministratore di sostegno, che accompagna i soggetti deboli nella gestione della vita quotidiana senza negare loro il diritto all’inclusione e all’amor proprio.
A lui, infine, fa capo la battaglia tuttora in corso per l’abrogazione di un istituto che dell’amministrazione di sostegno, per certi versi, rappresenta l’esatto contrario, e cioè l’interdizione. Uno “strumento cattivo”, lo definisce Cendon, perché funzionale a privare il soggetto interdetto di ogni prerogativa, isolandolo dal mondo, escludendolo, sigillandone una volta per sempre le debolezze dentro una specie di prigione, dalla quale non sono previste vie di uscita o di evasione.
Il giudizio universale quotidiano
«I diritti dei più fragili» mescola all’autobiografia elementi saggistici e narrazioni di storie altrui. Ne esce una mappa variegatissima della fragilità e degli umani destini, e ne risulta confermata la potenzialità del diritto contro ogni falsa credenza. Perché è vero che la vita non potrà mai essere contenuta nella legge e che sarà sempre destinata a eccederla, a sfondarne i confini; ma è anche vero che solo la legge può dare forma e senso al nostro essere ora e qui. È la legge, in definitiva, a dare una misura al nostro abitare nel mondo. E proprio questo, probabilmente, intendeva Albert Camus nell'affermare, in una sua celebre frase, icastica e potente: «Le dirò un grosso segreto, mio caro, non aspetti il giudizio universale. Avviene ogni giorno».
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