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L’industria italiana per la guerra e i dividendi della pace

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il centenario della «grande guerra»

L’industria italiana per la guerra e i dividendi della pace

La Grande Guerra fu davvero un conflitto totale, nel senso che ogni paese belligerante era interamente mobilitato, non soltanto con i soldati al fronte, ma in tutti i settori della vita nazionale, a cominciare da quello economico. Presentando il volume “Industriarsi per vincere-Le imprese e la Grande Guerra”, a cura di Andrea Pozzetta (edizioni Interlinea), Alessandro Barbero scrive che vent'anni dopo, invece, «l'Italia di Mussolini, che pure si pretendeva totalitaria, non sarà assolutamente in grado di realizzare una mobilitazione altrettanto massiccia, né per il reclutamento, né per la produzione industriale».

Anche nei libri pubblicati in occasione del centenario del 4 novembre 1918, tuttavia, si parla poco di chi partecipò alla Grande Guerra non da combattente nelle trincee, ma fu reclutato per la produzione bellica nelle fabbriche, dove si lavorava a ritmi serrati per fornire quanto occorreva in prima linea: cibo, medicinali, vestiario, oltre alle armi e alle munizioni. Per tutta la durata del conflitto circa 900 mila operai vennero inquadrati nel regime di militarizzazione della manodopera negli stabilimenti ausiliari. C’erano poi i giovanissimi, non ancora in età per essere mandati al fronte e gli anziani: il reclutamento riguardò infatti le classi dei maschi nati dal 1874 al 1899. Questi ultimi, “i ragazzi del Novantanove”, ebbero il battesimo del fuoco (e del sangue) sul Piave nel novembre 1917. Massiccio fu anche l'ingresso delle donne nelle fabbriche e in mestieri prima esercitati da soli uomini: un fenomeno innescato dall'esigenza bellica, che proseguirà anche nel dopoguerra.

Attraverso documenti, manifesti di propaganda, fotografie d'epoca, cartoline postali, il volume di grande formato “Industriarsi per vincere” ripercorre il ruolo delle aziende italiane di fronte all'emergenza bellica, in un inedito sguardo sul “fronte interno” che racconta la quotidianità del conflitto. Un’opera antologica dedicata a oggetti e strumenti, divenuti dei simboli degli italiani in armi, su cui si è costruita l'identità collettiva di generazioni di soldati: gavette e borracce, carne in scatola e panni di lana, fucili e automezzi. La guerra 1915-18, infatti, è stata anche una fase di grandi trasformazioni per un'Italia ancora essenzialmente agricola, da cui discende la nostra idea di “modernità”. La crescita, però, fu sensibile e permanente solo in certi settori, come la produzione di energia elettrica e di veicoli a motore, a scapito di altri, dove la fine delle commesse militari causò un duro contraccolpo.

Le fabbriche del grigioverde
Le tavole di Achille Beltrame per «La Domenica del Corriere» sono forse la più nota testimonianza dei colori della Grande Guerra: «sei milioni di uomini in grigioverde hanno popolato le caserme d'Italia, le stazioni, gli snodi ferroviari, le tradotte, per andare a mimetizzarsi lungo la linea del fronte tra rocce, prati e trincee (pag. 57)». Almeno il 70% del panno grigioverde, ottenuto da una miscela di lana bianca e lana oliva, proviene dagli stabilimenti del distretto industriale di Biella, la restante parte per lo più dalle manifatture di Prato e dintorni. I lanifici italiani sostengono lo sforzo bellico aumentando la produzione da 30 mila a 3 milioni di metri al mese.

Nell’Italia contadina del primo Novecento la cucina era quasi interamente domestica; le poche industrie conserviere esportavano i prodotti inscatolati sul mercato europeo oppure Oltreoceano. «Il primo vero pubblico nazionale di consumatori di massa è costituito proprio da un esercito mobilitato come mai si era visto nel nostro paese (pag. 69)». L'enorme richiesta per le forze armate stimola la crescita delle aziende alimentari. Ne citiamo due: la Barilla, fondata a Parma nel 1877 come bottega artigianale, ma che alla vigilia del conflitto era già in grado di produrre, attraverso motori elettrici, cento quintali di pasta al giorno; poi la Cirio, fondata nel 1875, all'avanguardia nel settore delle conserve e dotata di officine attrezzate per produrre grosse quantità di contenitori di latta. Così gli stabilimenti Cirio di San Giovanni a Teduccio (Napoli) e di Castellammare di Stabia vengono dedicati alla produzione dei ranci militari: carne e pesce in scatola, sughi pronti a base di pomodoro e lardo.

Per tutta la durata del conflitto i forni delle grandi aziende siderurgiche «sudano metalli a ritmo impressionante». Lo sviluppo dell'Ansaldo di Genova è tale per cui l'azienda giungerà a fornire da sola il 46% delle artiglierie prodotte nel corso della guerra. Il colosso industriale dei Perrone risulterà anche una risorsa essenziale dopo Caporetto – per compensare le ingenti perdite di macchinari e armamenti nella rotta – e, successivamente, nell'offensiva finale di Vittorio Veneto.

Andrea Pozzetta (a cura di), “Industriarsi per vincere-Le imprese e la Grande Guerra”, Interlinea, pagg. 206, € 30

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