Cultura

Tuffi selvaggi in Oceania

  • Abbonati
  • Accedi
londra

Tuffi selvaggi in Oceania


Prua  di canoa delle  Isole Salomone in mostra alla Royal Academy di Londra
Prua di canoa delle Isole Salomone in mostra alla Royal Academy di Londra

Non è una mostra di antropologia, non è una mostra d’arte, non è una mostra didattica e non è nemmeno una mostra sul confronto tra il passato e il presente. No, la mostra Oceania, che si tiene alla Royal Academy di Londra e che sarà aperta fino al 10 dicembre, non è nulla di tutto questo, ma è tutto questo insieme. È, nella sostanza, un’esposizione fortemente innovativa, che offre una full immersion nell’Oceania e coinvolge il visitatore sul piano percettivo ed emotivo. Certo non è la prima volta che in una mostra si gioca la carta delle emozioni, ma, per quanto risulta a chi scrive, è la prima volta che si propone un’esperienza del genere tra le grandi esposizioni sulle civiltà “altre”. E, cosa ancora più interessante, il coinvolgimento emotivo del visitatore viene suscitato in due modi diversi. Da un lato si gioca la carta dell’understatement, evitando i toni sopra le righe, dall’altro lo si circonda di opere che, in alcune sale. non attendono di farsi vedere, ma lo assalgono, si potrebbe dire, trasportandolo direttamente in Oceania.

L’architrave per capire lo spirito della mostra e viverne l’impatto emotivo è il video: In Pursuit of Venus [Infected] dell’artista della Nuova Zelanda Lisa Reihana, che per 64 minuti presenta a ciclo continuo decine di scene diverse, slegate tra di loro, che mostrano episodi insignificanti dei primi incontri tra Inglesi e Maori o di vita quotidiana o rituale delle popolazioni dell’Oceania. Lo spettatore ne vede contemporaneamente solo cinque o sei, mentre il video scorre lentamente, da destra verso sinistra su una parete lunga circa 30 metri. Ogni scena è interpretata da attori che rappresentano personaggi storici e figure anonime su uno sfondo, pure in movimento, disegnato a partire dalle immagini della grande stampa a colori: Les Sauvages de la mer du Pacifique realizzata in Francia nel 1804. Il video, dunque, non ha un inizio e non ha una fine, non racconta e non spiega nulla, semplicemente rapisce il visitatore e lo rende testimone oculare e partecipe dei tanti eventi che hanno caratterizzato la storia dell’Oceania, sia di quella incontaminata, sia di quella del contatto.

Tuttavia, anche se la mostra gioca magistralmente la carta delle emozioni, non si deve pensare che sia priva di sostanza. La sostanza c’è, eccome. Nel complesso si presentano circa 170 opere: video, fotografie, sculture, canoe, elementi architettonici, indumenti, ornamenti, disegni, utensili, ecc. in un percorso espositivo che offre una scansione tematica logica e accattivante. Dato che la mostra prende spunto dal 250° anniversario del primo viaggio di Cook, che, tra l’altro, coincide con la fondazione della Royal Academy, il punto di partenza non può che essere dedicato alla navigazione nel Pacifico. Tuttavia, con una logica che in tempi di “scontri di civiltà” non si può non apprezzare, la mostra non celebra il navigatore inglese, i cui viaggi rimangono un po’ sullo sfondo, ma dà voce all’ “altro” presentando gli strumenti che hanno consentito ai Melanesiani e ai Polinesiani di colonizzare un continente, che, pur occupato prevalentemente dal mare, si estende per quasi un terzo della superficie del pianeta. La prima sala della mostra, infatti, presenta canoe, prore di canoe, sculture per prore di canoa, paraspruzzi, remi, ecc. finemente decorati. Il pezzo di maggiore impatto è lo “spirito” di una canoa senza scafo lungo quasi dieci metri ornato con sculture di antenati e di animali. Significativamente, a riprova del rapporto pervasivo col mare delle popolazioni dell’Oceania nei contesti più diversi, si tratta di un oggetto che non era utilizzato per navigare, ma nei riti di passaggio sulla terraferma.

Nonostante la forza e la bellezza dei reperti più imponenti o elaborati, per chi scrive, gli oggetti più intriganti della prima sezione sono tre carte per la navigazione formate da sottili bastoncini legati tra di loro, sui quali sono fissate alcune conchiglie che rappresentano delle isole. Per quanto si sappia che erano sintesi estreme delle correnti, delle onde e dei movimenti degli uccelli e delle stelle e non mappe vere e proprie, ciò non di meno erano utilizzate per fare viaggi in mare aperto di migliaia di chilometri, in genere contro gli alisei e le correnti, nella più straordinaria epopea di colonizzazione marittima della storia premoderna.

Dopo la prima sala il percorso espositivo prosegue presentando le strutture delle diverse comunità, gli etnemi religiosi, i rituali, i primi incontri con gli Europei e si conclude la rivisitazione del culto degli antenati a partire dai più recenti processi di acculturazione. In queste sale il dialogo tra le opere degli artisti del passato e quelle di oggi è costante.

È inevitabile, tuttavia, prendere atto che, a parte l’opera di Lisa Reihana, il visitatore rimane molto più affascinato dalle tipologie tradizionali. Tra i pezzi che da soli meritano un viaggio a Londra, si devono segnalare le opere delle Hawai (due teste di dei e un mantello) decorate con migliaia di piccolissime piume rosse, che, assieme ai capolavori dell’antico Perù, rappresentano il vertice assoluto di queste realizzazioni.

Accanto a loro si deve segnalare un Nukuoro delle isole Caroline, una grande scultura antropomorfa, che anticipa le migliori opere di Giacometti, il quale, come è noto, riconobbe più volte il debito che aveva nei confronti dell’arte oceanica.

Oceania, Londra, Royal Academy of Art, fino al 10 dicembre

© Riproduzione riservata