Chiunque ci provi lo sa bene: fare storia della contemporaneità, per definizione, è un esercizio impossibile. Come alla fine di Palomar di Calvino, le onde del presente di continuo ridefiniscono il mare che ci si affanna a descrivere. Più è aggiornato e dettagliato, un resoconto, più invecchia in fretta: perché anche lo storico vive nel tempo. L’ambito artistico e letterario conosce poi un paradosso ulteriore. Chi fa il critico, con una parte di sé, si augura che le sue stesse mappe, appena messe a punto, non abbiano più valore: perché questo vorrebbe dire che nel frattempo è apparsa un’opera nuova, così forte da smentire le isoipse e le isobare che di ogni mappa dell’immediato passato fanno anche un bollettino meteorologico del futuro.
Ma non è solo per questo paradosso di Zenone fenomenologico che, da una trentina d’anni a questa parte, i critici più autorevoli mettono in guardia i lettori sulla sostanziale inattendibilità dei loro bilanci. Non solo per l’ovvia impossibilità di tener conto di tutte le novità di narrativa e poesia (decine di migliaia, quelle ogni anno registrate dall’AIE); venuta meno è la selezione una volta operata dall’editoria. Che questo mare scandagliava a due livelli: a un vaglio di qualità aggiungendo un orientamento di genere e tendenza. Chi entrava in libreria nel 1980 sapeva cosa aspettarsi da un libro della collana “gialla” Feltrinelli, della “verde” Garzanti o dello «Specchio» Mondadori.
Come dice Gianluigi Simonetti, «che un poeta oggi pubblichi in quelle sedi non significa più nulla di per sé». Coloro che d’abitudine leggano i loro contemporanei sanno benissimo che le cose meno prevedibili, da tempo ormai, non escono più nelle collane storiche (il che non esclude, ovvio, che vi possano ancora apparire opere di rilievo). L’editoria senza editori, come la chiamava André Schiffrin – che ha cioè abdicato al suo ruolo di orientamento culturale, oltre che di vaglio qualitativo, per perseguire solo fini di lucro –, è insieme conseguenza e concausa della società sempre più disintermediata, come dicono i sociologi, che abbiamo sotto gli occhi (cogli effetti, anche politici, che cominciamo a sperimentare).
Ma più un territorio si presenta accidentato, più necessita di guide. È dopo Babele, non prima, che servono i traduttori. Non è dunque solo perché i lettori di questa testata si può dire lo abbiano visto nascere, che un libro come La letteratura circostante, che sin dal titolo si presenta in termini di orientamento “spaziale”, va preso con la medesima serietà con la quale si pone di fronte al proprio oggetto. Primo e decisivo atto di coraggio, del libro di Simonetti, è quello di assumere in pieno (senza esorcizzarla a priori: ciò che troppi libri d’argomento simile hanno fatto, in questi anni, non senza ipocrisia) la natura radicalmente «mutante» di una «società letteraria […] che sta ripensando, e a tratti capovolgendo, le basi umanistiche del proprio sapere». Se «la letteratura di una volta» – come la definisce Simonetti con ironia garbata quanto tranciante – era investita da un «mandato etico e quasi religioso», quello di educare i suoi lettori a una postura obliqua e paradossale (stare dentro il mondo, capirne i presupposti e il funzionamento, e insieme rifiutarne l’inautenticità in tutte le sue forme), ponendosi quale «coscienza infelice e germe antisociale», il panorama di oggi si presenta simmetricamente rovesciato. Osservata nel suo complesso, non si può negare che «la letteratura italiana degli ultimi decenni» (e bene fa Simonetti a non tentare di indicare date-limite sempre arbitrarie, indagando invece quella che è «una soglia mobile»), presenti «un distacco progressivo e irreversibile dalla tradizione del Novecento».
Quanto segna la novità persino perturbante, dell’operazione di Simonetti, è proprio la sua ambizione di osservare il campo letterario nel suo complesso. A impressionare infatti non è tanto la sterminata ampiezza d’informazione, quanto la capacità di muoversi con altrettanta competenza nel repertorio della «poesia di ricerca» da ottanta copie quanto in quello da trecentomila dei blockbuster post-rosa di Fabio Volo come dei (presunti) neo-gialli di Giancarlo De Cataldo. E chi si trovi a essere di lui tanto meno pieghevole può solo invidiare l’abnegazione di procacciarsi tutte le plaquettes di Mario Benedetti e Gherardo Bortolotti ma anche di sorbirsi i fervorini educativi di Alessandro D’Avenia e persino gli album di famiglia larmoyantes di Daria Bignardi o di Enzo Ghinazzi in arte Pupo (o, volendo essere meno cauti, le saghe di Elena Ferrante).
«Questo studio», avverte Simonetti, «non scommette su qualche poetica in particolare, non difende nessuna qualità letteraria genericamente intesa», e dunque si schiera contro ogni attitudine «poliziesca, normativa e paralizzante» della critica. Il saggio che negli ultimi anni più ha affermato il suo autore, Senza trauma di Daniele Giglioli, allo stesso modo dismetteva a priori ogni «giudizio di valore» per assumere due generi fortunati, il noir e l’autofiction, quali meri «sintomi» di un paesaggio, quello sociale e politico, considerato più interessante di quello specificamente letterario. Rispetto a questo precedente (col quale, come a quelli di Raffaele Donnarumma o di Guido Mazzoni, la sintonia è dichiarata), La letteratura circostante si presenta infinitamente più inclusivo ma anche, dal punto di vista teorico, assai meno agguerrito. Il campione (nel senso dell’analisi sociale, stavolta, anziché letteraria) ne risulta tanto più osservato in ampiezza, dunque, quanto meno interrogato in profondità. Con meno garbo del solito, infatti, Simonetti distoglie da sé il calice del «trovarobato delle scienze umane». Con l’eccezione, appunto, della sociologia. La ripetuta metafora del «campo letterario» ha una precisa (ancorché mai citata) matrice in Pierre Bourdieu. E altri e meno à la page modelli sociologici sono implicitamente applicati, con (ancora una volta) invidiabile perizia: come quando Simonetti distingue infallibilmente, ogni volta, il masscult dei «monnezzoni» da cassetta più sguaiati dal midcult del «nobile intrattenimento» a tenue letterarietà (nonché aduggiato dal politicamente corretto che tanto lo annoia), à la Erri De Luca o Paolo Cognetti. Con malcelato tic snobistico, gli impresentabili primi gli sono ben più simpatici dei pretenziosi secondi: ed è allora condivisibile la stroncatura solenne, a dispetto delle apparenze, dei romanzi storici «per dottorandi» di Scurati o Wu Ming, del mélo dell’Avallone o della Mazzantini, della «nevrosi standard» di Giordano, dell’effetto «paradossalmente tranquillizzante» della colluvie di noir sedicenti engagés. Dove si vede fra l’altro come i giudizi di valore, negati in linea di principio, rientrino eccome dalla finestra.
Il presupposto di Simonetti è dichiarato: «se lo studio della letteratura vuol ricostruire un’immagine sociale (conscia e inconscia) del presente, le scritture di consumo devono restare all’interno dell’indagine, anche al prezzo di modificarne il perimetro». La conseguenza sono le pagine e pagine dedicate a successoni, come quelli di Brizzi o Moccia, consumati (cioè a pochi anni dal loro apparire del tutto dimenticati) mentre autori da Simonetti (anche in tal caso condivisibilmente) ammirati, quali Franco Cordelli o Francesco Pecoraro, sono da lui solo citati.
Il problema, dal mio punto di vista, è che lo studio della letteratura non deve necessariamente ricostruire un’immagine sociale del presente. O almeno non dovrebbe farlo in forma di mera constatazione, del presente che ci tocca in sorte (ben diverso era, per esempio, l’atteggiamento di Giglioli). Dall’auctoritas di Alessandro Baricco (ohibò) Simonetti riprende l’idea per cui la letteratura di oggi non conterebbe per il proprio «spessore», cioè la propria densità cognitiva e stilistica, bensì – perfettamente all’inverso – per la sua porosità, cioè per la sua capacità «di farsi “sistema passante” di informazioni». Al di là del merito, è interessante la metafora (di matrice, di nuovo, urbanistico-sociale). Con l’impostazione di Simonetti, temo che l’effetto sia quello di far passare un po’ tutto quello che passa il convento (cioè l’industria culturale). Ufficio del critico, come si ripete sempre con una certa inerzia ricordando l’etimologia del termine, è al contrario quello di non far passare quanto, opinabilmente certo, egli ritenga che non debba passare. Tanto più quando tale compito di selezione, oggi, non se lo sobbarchi più nessun altro. E pazienza se, testardamente convinti di questo, tocchi far la parte del poliziotto cattivo.
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Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesie nell’Italia contemporanea , il Mulino, Bologna, pagg. 454, € 29 in libreria da giovedì prossimo
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