Non è facile piacere al pubblico e avere consensi anche dalla critica, soprattutto se si scrivono romanzi di genere e se c'è di mezzo un personaggio seriale (la serialità è vista sempre con molto sospetto da un certo apparato culturale). Eppure questa strana alchimia riesce ad Antonio Manzini e al suo Rocco Schiavone, un po’ come capita ad Andrea Camilleri e a Montalbano. E forse non è un caso che i due si conoscano da decenni (Camilleri insegnava regia quando Manzini imparava a fare l'attore), che Camilleri abbia fatto leggere all'allora giovane Manzini il manoscritto del suo primo Montabano e che i due, insomma, si stimino a vicenda.
In molti definiscono Manzini “l’erede di Camilleri”. «Gliel'ho chiesto anch'io ad Andrea –ironizza Manzini- ma lui mi ha risposto: Scordati che vada dal notaio! Ho figli e nipoti, non c’è trippa per gatti. Io ci ho provato. Metti che diceva sì? Magari una cosetta a Porto Empedocle… ci sarei andato in estate. Invece niente».
ll successo di Rocco Schiavone fra i lettori italiani è sottolineato dai numeri: quasi due milioni di copie vendute. In soli cinque anni (Pista nera risale al 2013) Manzini ha rivoluzionato il mondo del noir e si è imposto con forza. Poi è arrivata anche la serie tv su Rai 2 (già due stagioni andate in onda) che ha ulteriormente aumentato la notorietà di un personaggio che forse piace proprio perché pieno di difetti. Il vicequestore Schiavone è uomo di legge, ma la legge la infrange. Caustico, sarcastico, dissacrante con i suoi sticazzi pronunciati per segnare una distanza fra sé e il mondo esterno. Un uomo pieno di fantasmi del passato che fa uno sforzo per stare al mondo, aiutandosi spesso e volentieri con qualche canna fumata anche in Questura.
«Nella primissima bozza del primo romanzo Pista nera, Schiavone si faceva di eroina, era un assassino, un disgraziato. Un concentrato di difetti. Poi però mi sono accorto che era troppo negativo e l’ho ammorbidito. Tra l’altro all'inizio non pensavo a un personaggio seriale». La serialità è nata per caso in seguito al successo di quel primo romanzo con Rocco Schiavone.
Impossibile mettere nero su bianco la ricetta di questo successo, se ci fosse saremmo pieni di best seller. «È un po’ come la ricetta del polpettone», scherza Manzini. Ma almeno proviamo a identificare gli ingredienti, consapevoli che poi quello che conta sono le dosi e la capacità del cuoco di amalgamare tutto. C'è sicuramente il fatto che Schiavone è un perdente, è pieno di difetti e debolezze, insomma Rocco è uno di noi o anche un po' peggiore, un uomo al quale tendere una mano.
«I personaggi azzoppati dalla vita sono quelli che hanno più da raccontare. Gli ultimi della fila sono i più interessanti» dice lo scrittore. Il tono ironico e dissacrante di Rocco ci fa sorridere, anche in modo amaro. Le indagini sono narrate con grande ritmo, i dialoghi sono serrati, la battuta spunta dietro l'angolo anche quando non te l'aspetti. La lista delle rotture di “scatole” che pone al decimo livello il caso da risolvere, ma contempla anche andare a un matrimonio o una cresima, è una delle poche note biografiche che Manzini ha attribuito al suo personaggio.
«Anche i cocktail sono una gran rottura di coglioni. L'inventore di apericena deve essere rinchiuso a Guantanamo!». Ma poi accanto al sorriso e all'ironia, nei romanzi con Schiavone c'è la malinconia per un passato che non può tornare e la dolcezza del ricordo di Marina, la moglie uccisa e con la quale lui continua a parlare virtualmente.
Eppure negli ultimi romanzi Marina è meno presente. «È come la luna, ci sono momenti in cui cala, momenti in cui sparisce del tutto. Ora si è un po’ scocciata di andare in aiuto a Rocco, ma non lo abbandona. Difficilmente una persona che non c'è più e che hai amato con tutto te stesso sparirà dalla tua vita». E poi c'è la tenerezza che emerge timidamente e a suo modo nel rapporto con il sedicenne Gabriele, prima vicino di casa e poi coinquilino.
«Rocco è un lupo vecchio e Gabriele un lupacchiotto che deve essere rimesso nel branco. Rocco gli insegna con i morsi e con le zampate». Infine l'animalità di Rocco, quel suo sentire l'odore delle cose, delle persone e dei luoghi che lo guidano nelle indagini, un po' come i cani che Manzini ama visto che ne ha sei. «Tutte queste cose sono vere, questi elementi ci sono nei miei romanzi, ma non so se considerarla una ricetta –dice Manzini-. Anch'io, soprattutto all'inizio, mi sono chiesto il perché del successo, ma non ho mai trovato risposta».
Il successo è, dunque, un’alchimia non prevedibile tanto che Manzini, così come la maggior parte degli scrittori, vive l'uscita dei nuovi romanzi con ansia. «Ogni volta ho paura, come quando facevo l'attore e dovevo affrontare ogni volta un pubblico diverso». C’è anche il timore che a furia di inventare intrecci narrativi qualcosa sfugga di mano. «È sempre una prova del nove». Quanto al finale di Schiavone nulla è stato scritto, in questo Manzini non è come Camilleri che ha già stabilito come si concluderà Montalbano. «So cosa gli capiterà a breve, per il resto non so bene dove andrà a parare. So solo che Schiavone si chiuderà quando non sarò più in grado di divertirmi e di divertire».
Forse, chissà, fra tanti anni l'ultimo romanzo con Rocco Schiavone si chiuderà con un suo lapidario sticazzi. «Dello sticazzismo ho fatto una mia filosofia di vita - dice Manzini-. Ho capito che uno sticazzi quando serve ti libera da un sacco di problemi».
(Alessandra Tedesco, conduce su Radio 24 “Il Cacciatore di libri” in onda ogni sabato alle 6,30 e alle 21,30)
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