Cultura

A questo serve la scrittura. Ad alzare la voce

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Lidia ravera. «L’amore che dura»

A questo serve la scrittura. Ad alzare la voce

«E in quel momento la vede. Pedala verso di lui su una grande bicicletta dipinta di nero. Ha ancora, dopo tutti quegli anni, i capelli folti lunghi e diritti divisi in due da una scriminatura. Il vento le scopre le orecchie, i capelli spinti indietro sventolano compatti come ali di stoffa». Com'è rivedersi dopo vent'anni? Com'è incontrare l'amore che è stato e non si capisce se è ancora? Quale gioco si mette in scena? Quanto si cade nella rete di ricordi, rimpianti?

Poi invece la vita ci spiazza, con i suoi accadimenti casuali, o fatali. Emma quel giorno pedala svelta e guarda verso di lui. Lo vede seduto al tavolino del bar. Toglie una mano dal manubrio e lo saluta e gli sorride. Ed è tutto in quella mano. Toglierla o non toglierla dal manubrio per salutare l'uomo che non vedi da una vita. È stato il tuo amore e ora non sogni che di rivederlo. Quindi lo saluti già da lontano. Quindi per salutarlo togli la mano dal manubrio.

La storia è questa: Emma sta volando all'appuntamento con Carlo, vent'anni che si sono lasciati, quaranta che si sono messi insieme. Avevano sedici anni nel 1976, due ragazzi e i loro ideali, i cortei, le manifestazioni, vivere di niente, amarsi. Ora lui è un regista che sogna l'Oscar, un uomo ambizioso, bello, permaloso, egoista; lei è un'insegnante che i suoi allievi li chiama «figli per finta», la cattedra non la usa, si siede per terra, o cammina: «Sto sempre bassa, sto sempre sotto. Sto sempre con loro». Si lasciano quando lui per inseguire il suo sogno se ne va a New York e lei non lo segue, rimane a Roma, ad aiutare i ragazzi in difficoltà, a salvare tutte le anime che può, a prendersi in casa quell'allieva che è rimasta incinta.

Si sono dati appuntamento in un bar, Emma e Carlo, e ognuno porta con sé un peso che forse adesso avrebbe voglia di scaricare addosso all'altro. Lui è a Roma per il suo nuovo film, che racconta del loro amore da ragazzi e che a lei non è piaciuto, gliel'ha stroncato in un articolo. E lei… Lei ha un peso più grosso, che non si può dire, che ha detto solo per scritto, nel buio silenzioso dei suoi quaderni, e che quel giorno forse proverà a dirgli.

Ma si può dire all'amore che hai lasciato vent'anni fa ciò che allora non hai avuto il coraggio di dire? No. E infatti Lidia Ravera ferma la sua Emma un attimo prima che si sieda al bar: le procura l'incidente in bici, il coma. Colpo di genio narrativo. Il coma congela il tempo, lo sospende in una zona neutra, che non esiste. È un'aperta parentesi, un binario parallelo che ci sposta e ci regala una possibilità in più, un tempo che, tenendo in sospeso per forza di cose il futuro, spalanca il passato e ce lo lascia lì, vetrificato.

Allora, quel mattino Emma arriva in bicicletta. Vola. I capelli le fanno ala, assomiglia a un angelo. Ricorda un po' la Clizia di Montale, in quel bellissimo mottetto che inizia Ti libero la fronte dai ghiaccioli. Messaggera degli dei. Donna alata. Mistero. Non è indifferente il modo in cui Emma arriva-appare all'incontro. Poteva prendere l'auto, per dire, o l'autobus. Invece ha preso la bici e i suoi capelli volano come ali. Le scelte narrative, le immagini, le parole, non sono innocue: scolpiscono una storia, la determinano.

Emma portava nella borsa i suoi quaderni. Lì dentro c'è la loro storia, anche il segreto che lei non gli ha mai svelato. Ora lei, sì, se ne va di nuovo via, sfugge, sparisce dentro un coma. Ma in qualche modo anche, involontariamente, finalmente gli parla, per quella via traversa che è la scrittura: gli affida quell'unica forma possibile di espressione dell'inesprimibile. Carlo trova i quaderni e li legge. E la storia inizia, sospesa, tra presente e passato, tra realtà e scrittura.

È qui il bello, in questo romanzo: lui ha fatto un film su di lei e sul loro amore adolescenziale, e lei ha scritto un diario su di lui e su tutta la loro storia. Ognuno dei due ha trasfigurato la vita, per raccontarla all'altro. Lei «ha allineato il passato per piccoli cumuli di presente». E lui ha “ricostruito” i luoghi e gli avvenimenti in un teatro di posa, «ha fatto della loro gioventù un film in costume». Emma in una lettera gli scriverà: «Non sono contenta. Perché quando la storia che racconti rispecchia la nostra vita di rivoluzionari sedicenni mi sento usata e quando se ne discosta per concedere allo spettatore un po' di sana action mi sento defraudata della complessità dei miei ricordi». Ma per lui quel film era «un tentativo di riappropriarsi di qualcosa che è andato irrimediabilmente perduto. Il sogno di rivivere, di vivere di nuovo, di correggere forse, oppure no, semplicemente di riassaporare».

L'arte in ogni caso tradisce la vita. L'arte semplifica, per forza. E «ogni semplificazione toglie vita alla vita, rende il passato opportunista, lo manda dove lo vuoi mandare, e allora la verità si allontana», dice Emma-Lidia Ravera.
Ma nei suoi quaderni Emma ha messo tutto quello che non è mai riuscita a dire, «tutto quello che, se anche avessimo parlato, non avresti ascoltato. A questo serve la scrittura. Ad alzare la voce». Solo scrivendo si riesce a dire, ma proprio nella scrittura quel che si dice si vela: diventa altro e quindi si nasconde, per sempre. Destino di chi scrive, quello di velarsi…

L'amore che dura è un romanzo d‘amore, certo. Più che altro sul peso del non detto in amore. A me pare anche un romanzo sulla scrittura, sul cinema, sull'arte che in ogni forma tenta sempre di fare una cosa sola: svelare il segreto, e che per farlo per forza trasfigura, e perde la meta. Emma e Carlo erano giovani illuminati da ideali, ma anche accecati da un'ideologia. Ostili al matrimonio, ostili a far figli, essere corpi che generano altri corpi. E poi va sempre così, che il tempo passa e ci cambia, ma può succedere che cambi uno solo dei due: Carlo rimane com'è, Emma invece si sposta, vede altri orizzonti. E quando succede, può finire che ci si lasci. Emma si risposa con Alberto, Carlo con Sara.

E ora la figlia di Emma ha quasi vent'anni, e proprio da vent'anni lei e Carlo si sono lasciati… Emma l'ha chiamata Franny, perché a sedici anni lei e Carlo amavano il romanzo di Salinger Franny e Zooey. Era il 1977, lo leggevano sulla spiaggia di Sperlonga e poi facevano l'amore, e lui le diceva: «Noi non siamo gente che popola il pianeta, Emma. Noi siamo gente che si dà da fare per far stare meglio chi c'è già».

Emma si risveglierà dal coma? Questo libro con sapienza ci tiene avvinti, pagina dopo pagina. Son passati venti giorni, mi pare, niente di più dall'inizio del libro, ma a noi lettori sembrerà d'aver vissuto quarant'anni, dentro questa narrazione che va e viene dal prima al dopo, così leggera, così impietosa, e su un presente immoto sfonda il baratro infinito del passato. Ho molta ammirazione per gli scrittori che sanno costruire una storia. Costruire. Sembrerebbe facile, ma non è. Dico costruire scena dopo scena: prevederle, le scene in cui una storia è scandita. Va bene l'ambientazione, i personaggi, i dialoghi. Ma la trama è di più, è una costruzione, una vera opera di edilizia. Ci sono narratori non edili. Lidia Ravera invece è una narratrice edile. Usa mattoni, calcestruzzo, fili elettrici, tubature, tegole. Molto cemento armato, che poi dissimula sotto l'intonaco.

«Comunque vadano le cose, sei l'amore della mia vita» scriverà a Emma Carlo, quando ancora non si sa se lei si risveglierà dal coma. E alla giornalista che nell'intervista gli chiedeva se quella donna in ospedale era il suo primo amore, aveva risposto: «Non ce n'è mai un secondo, ti innamori quando è il momento giusto per innamorarti (…) Ed è presto, molto presto, a sedici anni, a tredici…. prima che la vita cominci».

Un libro che commuove, sorprende, riflette e fa riflettere, spiazza e sbilancia: non si sa da che parte stare, l'autrice è bravissima a farci rimanere in bilico. Emma sembrerebbe l'eroina positiva e Carlo l'anima nera, il cattivo della storia. Ma poi sembra il contrario. La vita mescola le carte, e ragionare in termini di buoni e cattivi forse funziona solo nelle fiabe analizzate alla Propp…

L'innocenza, la colpa, dove sta la verità e dove la menzogna, chi è la vittima e chi il carnefice? Tutto si comporrà in una frase scritta da Emma, due righe soltanto, con una parola al centro, ripetuta quattro volte: un verbo all'imperativo, che è una preghiera. Non ve lo dico certo io qui, lo troverete alla fine del capitolo 26. Ma quando lo troverete saprete che non finisce lì, che quelle due righe non suggellano niente, meno che mai un giudizio. Una storia così non si conclude, è una storia che “dura”. Non finirà nemmeno quando finisce, al mare, sulla spiaggia, davanti alle cabine di legno anni settanta. Lì non capiremo più neanche che anno è, se siamo ancora giovani o invecchiati, se è dopo o prima, “prima che le vite incominciassero a divergere”, o è di nuovo “prima che la vita cominci”.

LIDIA RAVERA,L'amore che dura, Bompiani, pagg. 408, € 18

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