«Michelangelo – infinito» è il titolo di una docufiction passata per qualche giorno nei cinema per essere poi ammannita in
televisione. Docufiction vuol dire una storia un po' vera e un po' romanzata per essere più accessibile al grande pubblico.
Il che si può anche fare, ma non è facile, perché breve è il passo tra invenzione e falsificazione. Qui tutto si riduce a
monologhi di Michelangelo e a una carrellata delle sue opere principali, affidate alla prevedibile retorica di una voce narrante
che ne celebra l'ineffabile bellezza, senza storia e senza contesto. La fiction si riduce al vago profilo umano di un genio
vissuto novant'anni dei quali nulla si dice, mentre tutto cambiò dall'età del Magnifico al Concilio di Trento, dal Rinascimento
alla Controriforma.
A narrare la sua vita con parole commosse è Giorgio Vasari, artista e letterato, fondatore della storia dell'arte. Professandosi
devoto amico di Michelangelo, Vasari lo presentò come il massimo artista di tutti i tempi, e giudicò il «David» come il suo
sommo capolavoro. Mai fidarsi degli amici troppo devoti, però, soprattutto quando ci si mette di mezzo la politica. E la politica
aveva portato Michelangelo a militare per la Firenze repubblicana, mentre Vasari era schierato sul fronte mediceo. Di tutto
ciò nulla dice e nulla spiega la docufiction: non spiega, per esempio, che quel gigante di marmo era un simbolo della libertà
repubblicana posto a guardia dell'antico palazzo comunale e non dice che Vasari non esitò a tradire la sua amicizia raffigurando
all'interno di quel palazzo il «David» come una statua decapitata ai piedi della quale un cane deposita i suoi escrementi.
Piccoli dettagli, minuzie della storia, che contribuiscono però a spiegarla, a farla capire, a sottrarla ai calembours dell'infinito-non
finito michelangiolesco. Il che però non è oggi di moda, perché viviamo nell'età delle emozioni, cui però tutto si può perdonare
tranne che di conciliare il sonno.
(Modesto Michelangelo Scrofeo)
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