Me ne sto solo, sul tetto di Notre-Dame, nel pulviscolo del mattino, appollaiato su una gargolla a forma di drago, a guardare
giù il brulichio formicolante, tutto colorato di giallo. Non mi capacito. Mica mi staranno portando via le anime che cerco
di concupire?
Vita dura la mia. Ben diversa quella di un mio progenitore, il Mr. Diavolo in black tie di Ernst Lubitsch nel film capolavoro
del 1943 “Il cielo può attendere”: lui, in una magnifica reception decò, se ne stava ad ascoltare estasiato Don Ameche (doppiato
da Giulio Panicali) esponente dell'alta borghesia americana, appena arrivato all'inferno dopo una vita sentimentale piuttosto
complicata. Per poi, a sorpresa, rimandarlo assolto su, al Padreterno.
Ora mi sento - proprio io - tra gli olivi dell'orto di Getsemani, mentre vedo estinta quella bella mondanità colta, che vi
ho raccontato la scorsa settimana. Dove brillava anche la presenza dell'Imperatore Meiji, che attorno al 1868 aprí il Giappone
al mondo intero, dopo oltre duecento anni di stretta autarchia: grazie alla Compagnia delle Indie, cominciò a diffondere in
Europa incisioni mai viste, le ukiyo-e. Quelle che Édouart Manet dipinge alla parete nel ritratto dell'amico Émile Zola, e
che Vincent van Gogh espone nel quadro “Père Tanguy”, vestendo con un kimono la “Cortigiana” del celebre quadro. Sono le japoneiserie
che sfoceranno nell'Art Nouveau e nelle linearità curvilinee di Klimt. Tutto allora si teneva. Dal bel suono, dalla scrittura,
dalla pittura del bello, su su fino alle prime immagini a volo d'uccello di Parigi, che io vedevo, rannicchiato nella cesta
dell'aerostato di Nadar. Con un balzo delle sette leghe, eccomi adesso, mentre mi aggrappo a una guglia del Duomo di Milano:
qui pure brulichio, se guardo verso Piazza Scala. Ma chi sono? Forse i bagarini, di nuovo molto attivi nel commercio a prezzi
stellari di biglietti per la Traviata di Domingo? E non li avevano appena debellati, con la ridicola accusa di essere loro
la causa dei paurosi vuoti in sala? Poffarre, qui gatta ci cova.
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