In un’intervista Barack Obama dichiarò di essersi ispirato talora all’insegnamento di un teologo, Reinhold Niebuhr. Non abbiamo dubbi che il suo successore, ignorando di ricalcare un personaggio celebre, reagirebbe con uno sprezzante: «Niebuhr, chi era costui?». Temendo un’analoga replica in molti altri (non solo negli attuali politici), ci affidiamo a un saggio da poco riedito per introdurre questo pensatore, nato nel Missouri il 21 giugno 1892 e morto nel Massachusetts il 1 giugno 1971. Si tratta di un testo che si auspicherebbe utopisticamente leggesse anche qualche nostro politico, ma non solo. Come dice il suo cognome egli era figlio di un pastore protestante emigrato dalla Germania; era, poi, il fratello maggiore di un altro teologo docente a Yale, Helmut Richard (1894-1962).
Reinhold per tutta la sua vita accademica fu docente all’«Union Theological Seminary» di New York, dopo aver esercitato il suo ministero pastorale nella comunità operaia di Detroit, la nota capitale dell’industria automobilistica (Ford, Chrysler, General Motors). Fu proprio questa esperienza a plasmare il suo pensiero in senso etico-sociale, a farlo dialogare col marxismo sia pure in forma dialettica, a imprimere nei suoi scritti, non di rado tradotti anche da noi, un’attenzione particolare all’impegno “politico” della fede, a collocare come stella polare della sua teologia l’amore evangelico considerato la fondamentale opzione morale personale.
È in questo sfondo tematico generale che brilla il saggio ora riproposto da Jaca Book, pubblicato nel 1932 e tradotto in italiano la prima volta nel 1968. Il titolo è emblematico, Uomo morale e società immorale. Lasciamo la parola a Niebuhr stesso che così illustra questa dicotomia che oppone l’etica individuale a quella collettiva: «Per le persone singole, essere morali può significare essere in grado di prendere in considerazione, ai fini della determinazione della propria linea di condotta, interessi diversi dai propri, ed essere capaci – in certi casi – di anteporre ai propri interessi quelli degli altri. Le loro facoltà razionali li spingono a un senso della giustizia che la disciplina educativa può raffinare e mondare da elementi egoistici».
Sull’altro versante, quello dei gruppi sociali, invece – continua Niebuhr – «giungere a tali risultati è più difficile, se non impossibile. In ogni gruppo umano, c'è meno capacità di guidare e controllare razionalmente gli istinti, meno tendenza ad andare al di là dei propri interessi, minore attitudine a comprendere i bisogni degli altri e perciò un più sfrenato egoismo». Parole sacrosante se appena fissiamo lo sguardo sui fenomeni e i comportamenti sociali anche odierni; parole forse ottimistiche per quanto riguarda, invece, le scelte individuali. Queste ultime, infatti, si stanno sempre più omologando a quelle del gruppo, divenuto ormai branco (e il comportamento giovanile attuale ne è una conferma amara).
Ciò non toglie che il ritorno alla formazione della coscienza personale – anche se in soggetti minoritari rispetto alla tipologia dominante – possa essere una benefica spina nel fianco della società. La rilevazione del teologo americano attinge, comunque, a una costante dell’umanità, già formulata nel celebre motto latino Senatores boni viri, senatus mala bestia, di genesi ignota, caro a Jung, che lo applicò alla politica, così come al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ripreso da Gramsci che lo vide però come frutto dell’individualismo, e da Einstein che lo criticò proponendo un’«internazionale della scienza» nel suo scritto Il mondo come lo vedo io. Niebuhr sviluppa questa tesi in modo molto articolato, prima puntando sulle risorse razionali e religiose che l’individuo ha a disposizione per fecondare la società in cui vive, e poi centrando la sua analisi sulla “morale” che regge invece le nazioni, le classi privilegiate e il proletariato.
Al vertice di questa piramide, i cui due lati sono il singolo e il gruppo, egli pone la giustizia che può essere realizzata attraverso la rivoluzione oppure mediante la pressione politica (è indubbio il riferimento al socialismo rivoluzionario e a quello riformistico). La stella dei valori morali ha, però, una diversa incidenza, a suo avviso, lungo i due lati del triangolo, per cui la conclusione della sua lunga e vivace analisi è quella che abbiamo abbozzato in apertura, ossia la polarizzazione conflittuale tra «i bisogni della società e gli imperativi di una coscienza sensibile». Le sue sono pagine appassionate, protese a formare moralmente la persona perché sappia evitare l’intrupparsi nelle illusioni collettive e nel fanatismo che ne può conseguire a livello di massa. Una lezione ardua ma necessaria.
Quasi a dittico, accostiamo un altro pensatore che sta godendo di un revival inatteso, tant’è vero che è in programma una collana dei suoi «scritti scelti» con un progetto di ben 11 tomi. Stiamo parlando di Erik Peterson, un outsider della teologia che conquistò però personalità come Barth, Ratzinger, Daniélou, Congar e molti altri, tra i quali spicca anche una figura “eccentrica” come Carl Schmitt. I suoi lavori critici sulla teologia politica e le coordinate cronologiche lo possono avvicinare a Niebuhr, anche se ben diverso fu il suo percorso ideale. Il suo apporto fondamentale riguarda, infatti, l’approccio interpretativo della letteratura protocristiana della quale egli cercò di individuare la filigrana greco-ellenistica, molto più fitta di quanto pensasse l’esegesi moderna, attenta più alle matrici biblico-giudaiche.
Nato ad Amburgo il 7 giugno 1890, convertitosi nel 1930 al cattolicesimo, si trasferì a Roma nel 1934, abbandonando la cattedra di Bonn per insegnare letteratura cristiana e storia universale della religione nel Pontificio Istituto di Archeologia cristiana. Morirà il 28 ottobre 1960. L’opera che lo introdusse nel dibattito culturale era, però, apparsa nel 1935 come replica a Carl Schmitt e s’intitolava Il monoteismo come problema politico. Sostenendo l’impossibilità di una traslazione della teologia cristiana in una forma politica, egli mostrava che nella letteratura ecclesiale dei primi tre secoli il monoteismo monarchico era stato liquidato dall’ortodossia trinitaria che poneva in Dio una pluralità inimitabile in modelli politici umani.
Il progetto di una selezione di testi petersoniani tradotti e commentati, a cui accennavamo, è ora aperto dalle lezioni che egli tenne a Bonn tra il 1925 e il 1928 sul Vangelo di Luca. È una lettura originale e spesso provocatoria, che travalica i commentari esegetici classici ma che offre spunti acuti e sorprendenti (ad esempio sul rapporto tra storia ed escatologia, o su quello tra Scrittura e Tradizione). Il testo – a cui si è introdotti da un’ampia guida approntata da Reinhard von Bendemann – è imprescindibile non solo per gli studiosi di letteratura cristiana antica ma anche per tutti coloro che amano inoltrarsi nei sentieri ramificati delle origini cristiane e del loro influsso sulla civiltà occidentale.
Uomo morale
e società immorale
Reinhold Niebuhr
Jaca Book, Milano, pagg. 225, € 20
Vangelo di Luca
Erik Peterson
Paideia, Torino, pagg. 488, € 48
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