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Genova come metafora

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Sguardi stranieri

Genova come metafora

Uno scatto di Chiara Durand
Uno scatto di Chiara Durand

A rendere plausibile un libro su Genova eccessivo come La Superba è il crollo del ponte Morandi, quel moncone ancora sospeso tra i palazzi sfollati e l’affollata Ikea dopo una tragedia da paesi sottoviluppati in una città d’arte del Nord Italia. Burocrazia e fatalismo levantino, difficoltà e unicità orografiche, slanci di grandeur e bassezze, ascese e cadute: il romanzo di Ilja Leonard Pfeijffer, un nome escogitato per far sbagliare i giornalisti italiani, contiene tutte le contraddizioni di un luogo dove gli edifici aristocratici convivono con i caruggi più angusti e fetidi, le ragazzine più fresche e filiformi incrociano nei vicoli vecchi trans pacchiani e grevi, e il genio italico si trasforma in ottusità.

Pfeijffer è uno scrittore affermato in patria, con una formazione da classicista, e ha deciso di restare a Genova dopo avere visitato nel 2008 altre città italiane, le classiche mete da gran tour. Nella Superba il passato è meno sacralizzato – spesso viene dissacrato o distrutto - e ingombrante che altrove, Firenze o Venezia... Il passato a Genova incombe ovunque, cade a pezzi a volte, ma non ha privato la città di autenticità trasformandola del tutto in una Disney turistica. La chiusura e la cocciutaggine conservatrice che caratterizza la mentalità locale hanno preservato Genova dalla globalizzazione alla Tripadvisor. Proprio per questo Pfeijffer ama la città, ne è innamorato, e allo stesso tempo ne ha paura, ne è inquietato, come tutti gli innamorati di creature lontane ed esotiche.

In Olanda Pfeijffer ha appena pubblicato Grand Hotel Europa, una riflessione, sempre in forma di romanzo, sul futuro di un continente forse destinato a diventare un museo per viaggiatori asiatici, sulla scia di Venezia. Uscirà con Nutrimenti, che ha pubblicato LaSuperba. Parentesi: è un piacere vedere un libro così ben curato e tradotto, senza refusi, in una veste grafica piacevole e riuscita, non buttata lì, come purtroppo capita sempre più spesso. Chiusa parentesi.

Tra le pagine della Superba, come tra le strade e i vicoli di Genova, si sentono echi che provengono da mille voci diverse. C’è l’innamoramento per la cameriera “locale”, che ricorda Chiedi alla polvere di John Fante. Lei è sempre a portata di mano quando lavora, ma allo stesso tempo sfuggente. C’è l’erotismo squallido e il bere oltre ogni limite come in Bukowski, il vomito nelle scarpe con i tacchi alti e i capezzoli grandi come 45 giri in vinile. Ma più che ogni altro testo La Superba richiama alla mente La Pelle di Malaparte, il ritratto grottesco e surreale di una città mediterranea, dal cui ventre antico può scaturire di tutto e quanto sembra inventato alla fine risulta più vero del verosimile.

I trans di Pfeijffer ricordano certe scene malapartiane e la mostruosità è letteralmente dietro l’angolo. Malaparte voleva intitolare il libro La Peste, ma Camus l’ha preceduto. Per Malaparte la peste era l’arrivo di un esercito ben nutrito ed equipaggiato in una città ridotta allo stremo e alla fame, un esercito che fino a qualche mese prima era considerato nemico e arriva per essere accolto come «liberatore» e corrompe chi è sopravvissuto alla guerra. Per Pfeijffer la peste è la miseria dell’immigrazione africana, l’arrivo di disperati che attraversano il deserto e poi il Mediterraneo su un gommone sgonfio, illusi di trovare sull’altra sponda del mare l’America, anzi «La Merica» come dicevano milioni di migranti italiani che attraversavano l’Oceano in cerca della terra promessa partendo proprio da Genova.

Così come l’amore per una donna è sempre un gioco di illusioni, di specchi – non a caso la cameriera lavora al caffè degli Specchi -, anche l’amore di Pfeijffer per la città è fatto di proiezioni, fantasmi e disillusioni. Questo vale anche per Rashid, marocchino che vende rose a un euro, manda qualche soldo a casa e vorrebbe tornarci solo in vacanza con la Mercedes e il Rolex. Più ancora vale per Djiby, senegalese che per mangiare fa lavoretti pesanti e ha attraversato l’inferno per arrivare in Italia e finire nei caruggi pieni di africani dove i genovesi dopo il tramonto non mettono piede, nemmeno quelli appartenenti alle forze dell’ordine. Il suo racconto è una delle parti più belle del libro, così come il ritratto di un noto e storico frequentatore dei bar di piazza delle Erbe, Donald Perrigrove Sinclair, scomparso nel 2015, grande bevitore di «cappuccini senza schiuma». Cioè gin tonic.

Diversamente che in Malaparte, italiano fra italiani a Napoli, Pfeijffer ha la prospettiva di uno straniero e vuole anche raccontare Genova. Il tifo calcistico diviso tra Genoa e Sampdoria, i ristoranti, i caffè, la storia, persino i fantasmi. Una notte, dopo una nevicata, incontra una vecchina, vestita in modo antiquato, che gli chiede se sa dirgli dove si trova vico dei Librai. Il nome è molto suggestivo per uno scrittore, che tra l’altro conosce benissimo il centro storico, ma non lo ha mai sentito. Alla fine la vecchina sparisce lasciando una banconota sul bancone del bar e nessuna orma sulla neve. Si tratta di cento lire del Regno d’Italia: la donna è un famoso fantasma che vaga senza pace da quando la via che portava quel nome è stata distrutta dai bombardamenti del 1942, come tutto il resto del quartiere, la Madre di Dio. Leggende metropolitane che si fanno letteratura.

Autofiction picaresca, narrativa di viaggio, denuncia sociale ai tempi dei «porti chiusi»: nella Superba convivono molti generi e anime letterarie, persino il romanzo nel romanzo e la deriva giudiziario-kafkiana. La lettura è impegnativa, soprattutto nella prima parte, che richiede la sospensione dell’incredulità e l’apertura credito verso un vichingo che ti viene a raccontare che cosa è Genova per lui. Ma la forza e la profondità della scrittura e il coraggio dell’autore nel mettersi letteralmente a nudo ripagano ampiamente lo sforzo.

La Superba, Ilja Leonard Pfeijffer, Nutrimenti, pagg.336, € 18

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