«Lui, Mademba, non era ancora morto e aveva già il dentro del corpo di fuori. Mentre gli altri si sono rifugiati in quelle ferite aperte della terra che chiamiamo trincee, io sono rimasto accanto a Mademba, steso contro di lui, con la mia mano destra nella sua mano sinistra, a guardare il freddo cielo azzurro solcato di metallo. Mi ha chiesto per tre volte di dargli il colpo di grazia e per tre volte mi sono rifiutato. Era prima che mi autorizzassi a pensare qualunque cosa». È un monologo folgorante, poetico e struggente il romanzo Fratelli d’anima dello scrittore francosenegalese David Diop che venerdì scorso a Ginevra ha ricevuto il premio Ahmadou-Kourouma, dopo essersi aggiudicato anche il Prix Goncourt Lycéens.
Pazzo di dolore e di rammarico per non aver compiuto l’unico atto umano che poteva compiere - finire l’amico più che fraterno mentre agonizzava dall’alba al tramonto con le viscere nelle mani e per terra - è Alfa Ndiaye, ventenne cresciuto nella casa di Mademba, il suo Frère d’âme (così il titolo originale) divenuto frère d’armes, fratello di armi, quando quest’ultimo ha deciso di lasciare il villaggio in Senegal e arruolarsi. La scuola dei bianchi gli aveva messo in testa di salvare la madrepatria: la Francia.
In un fiume di parole musicale e straziante - ricco di metafore insistite che ricordano le ripetizioni del racconto orale, la non ancora seppellita tradizione dei griot - in un’esplorazione ossessiva e circolare del perché l’amico sia morto, delle sue responsabilità in questa morte, Alfa narra la sua storia e la storia dei 200mila combattenti africani inviati al fronte dalla Francia durante la Prima guerra mondiale.
Ma «chi racconta una storia (...) vi può nascondere un’altra storia. Per essere percepita, la storia nascosta sotto quella conosciuta, deve lasciarsi intravedere un pochino» scrive Diop. E in Fratelli d’anima le storie nascoste sono tante, si schiudono al lettore una dopo l’altra, in un vortice di significati. Alfa è l’uomo confrontato alla sua negazione, la morte, costretto a farla parte di sé. È l’uomo irrimediabilmente incrinato, quello che ha misconosciuto la sua umanità rifiutando la supplica dell’amico di sgozzarlo, «forse per salvarsi l’anima, forse per restare quello che coloro che lo hanno allevato hanno voluto che fosse davanti a Dio e davanti agli uomini». Ha dato ascolto a «pensieri bell’e fatti, troppo ben abbigliati per essere onesti» e si trova costretto a incarnare la contraddizione, a portarsi per sempre dentro il suo fratello d’elezione, quasi un gemello, con cui non è stato umano, identificandosi sempre più in lui in una spirale discendente in cui non smetterà più di reiterare la commedia di crudeltà che gli hanno insegnato.
Con questa voce scissa, in bilico su quel confine ambiguo che separa la lucidità più estrema dalla follia e che pare continuamente deragliare verso quest’ultima, Diop indaga cosa sia essere umani, quanto questo possa essere diverso da quel che si intende comunemente (impossibile non pensare ai dibattiti sull’eutanasia o non riflettere sugli effetti della violenza) e mette a nudo tutta l’assurdità della guerra. Si sofferma in particolare sulla recita che i toubab, i bianchi, chiedevano ai «cioccolatini»: piazzarsi in testa degli occhi da matto e andare all’attacco col machete urlando selvaggiamente per atterrire il nemico. Si chiede poi quali siano i pazzi: chi al fischio del capitano si butta fuori dalla trincea per ammazzare o essere ammazzato e torna al suo posto a comando - quelli che pretendono di essere pazzi temporanei - o i pazzi “non regolamentari”, come Alfa, che con coerenza spingono il pensiero a esaminare le estreme conseguenze delle proprie azioni, uscendone annichiliti e divenendo, con un chiasmo paradossale, la personificazione della morte per i loro commilitoni.
Più politico e meno esistenziale è La stagione delle prugne, dello scrittore camerunense Patrice Nganang, ampio romanzo corale che pure parla dei dimenticati fratelli d’armi africani dei francesi, durante però la Seconda guerra mondiale, con qualche accenno anche agli ancora più dimenticati fratelli neri di noi italiani. È la seconda parte di una trilogia che inizia con la Grande guerra(con Mont Plaisant, edito da 66thand2nd), e arriva alla guerra civile camerunense (1960-1970) con Empreintes de crabe. Circa 1.500 pagine molto documentate con cui l’autore ha delineato un grande affresco della misconosciuta storia recente del Camerun. Un’operazione per certi versi simile a quella fatta da Chinua Achebe o Wole Soyinka in Nigeria.
La stagione delle prugne, tradotto qualche mese fa, è ambientato tra Edéa, un villaggio in mezzo alla foresta in cui all’improvviso spunta il non ancora generale Leclerc con un improbabile abbozzo di esercito, Yaoundé, Douala e le sabbie del Sahara che inghiottirono i corpi e la memoria di tanti soldati. «Cinquemila uomini neri e bianchi, tra fucilieri senegalesi propriamente detti, fucilieri senegalesi-camerunesi, senegalesi-ciadiani, senegalesi-gabonesi» scrive Nganang facendosi beffe del pressappochismo europeo: bastava fossero neri per definirli “tirailleurs sénégalais”.
Oltre a ritrarre con raffinata ironia la seconda guerra mondiale vista da un Paese che è stato occupato dalla Germania, dalla Francia e dall’Inghilterra, Nganang descrive la società camerunense dell’epoca, dai vecchi indovini agli scrivani al servizio dei bianchi, dai coloni «partigiani sempre e comunque del paternalismo autoritario» alle donne, il cardine oppresso della società civile, ricordando ai suoi concittadini come i camerunensi «siano diventati schiavi il giorno in cui hanno impugnato le armi per andare a soccorrere la Francia sconfitta» (riferendosi al fatto che per ringraziare Yaoundé di aver sostenuto la resistenza francese e di averne probabilmente modificato le sorti, De Gaulle ha trasformato il Paese, che era solo un protettorato, in una colonia vera e propria).
La critica contro la Francia e l’attuale governo filofrancese è esplicita. Alla fine del 2017 Nganang è finito in carcere, accusato di affronto all’intramontabile presidente del Camerun e poi è stato espulso. Nel frattempo la situazione politica del Paese si è aggravata sempre di più e gli innocenti uccisi si contano ormai a migliaia. «Nell’ora del genocidio l’uomo del bene deve essere in prigione o sul campo di battaglia. Nell’ora della guerra civile l’uomo del bene deve essere in prigione», ha scritto Nganang un paio di mesi fa, dall’esilio.
Fratelli D’anima, David Diop, trad. di Giovanni Bogliolo, Neri Pozza, Vicenza, pagg. 122, € 16
La stagione delle prugne, Patrice Nganang, trad. di Marco Lapenna, 66thand2nd, Roma, pag. 350, € 18
David Diop, ha ricevuto venerdì scorso a Ginevra il premio Ahmadou-Kourouma ed è in finale al premio Strega europeo. Sarà al Salone del libro di Torino sabato 11 maggio alle 16.30,nella Sala internazionale.In programma anche gli altri finalisti: Catherine Dunne con Come cade la luce (Guanda), Robert Menasse con La capitale (Sellerio), Ilja Leonard Pfeijffer con La Superba (Nutrimenti); e Sasha Marianna Salzmann, con Fuori di sé (Marsilio)
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