Conoscere la storia non è altrettanto efficace per formare una mente critica nel mondo contemporaneo che, per esempio, sapere la statistica. Che nei nostri licei non è insegnata. Nessuno fa appelli per insegnare la statistica. L’appello in difesa dello studio e insegnamento è vaghissimo e non dice che la storia, da sempre, è largamente abusata. Se la storia in Italia è in crisi (ma cosa non è in crisi?) è anche perché gli intellettuali negli anni l’hanno brandita al servizio di una qualche ideologia, a dispetto dell’etica della responsabilità.
Quanto la storia sia ritenuta dai cittadini un «bene comune» (in che senso poi?) dipende dal valore che assume nell’aiutare a risolvere problemi nel presente. Nel suo ultimo libro il filosofo della scienza della Duke University, Alexander Rosenberg, spiega perché gli studi storici, a parte quelli quantitativi o che usano approcci controllabili, sono falsi. Lo si sapeva già, ma capire il meccanismo è affascinante. Gli storici pretendono di sapere perché Giulio Cesare piuttosto che Carlo Magno presero una determinata decisione, cercando di entrare nella loro testa. Così di sicuro si sbagliano e intercettano solo una dipendenza dalle narrazioni.
Le memorie storiche che ci trasciniamo appresso e trasmettiamo attraverso libri, manuali o ricorrenze celebrative, allo scopo di non “ripetere” le tragedie o gli errori del passato (secondo il motto: “Coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”) sono basate su assunzioni false. Ricordare, al di là della falsità che caratterizza la nostra memoria, può non avere gli effetti che auspichiamo. Potrebbe conservare proprio le credenze che diedero luogo, per esempio, ai sentimenti nazionalisti o razzisti che scatenarono guerre e genocidi, e che vorremmo cancellare dall’orizzonte delle nostre culture. Nel 2016 il giornalista e saggista David Rieff scriveva unElogio dell’oblio (In praise of forgetting. Historical Memory and Its Irony, Yale University Press), invitando a dimenticare i genocidi, perché diversamente dall’idea comune è solo cancellando il passato che si riduce la probabilità di vederlo tornare.
Gli studi storici che raccontano di motivi, desideri, pensieri, etc, dei protagonisti del passato, ci dice Rosenberg, si basano sulla teoria della mente, che è il tratto innato per cui attribuiamo credenze, aspettative, scopi, etc. agli altri. La teoria della mente si sviluppa in tempi controllati nei bambini, e chi non ne matura la neurologia necessaria si ammala di autismo. È il presupposto per ogni forma di interazione sociale: assumiamo dall’attività introspettiva di avere una mente, e quindi che anche le persone con cui interagiamo ce l’abbiamo. Non sappiamo né possiamo sapere cosa passi davvero nella testa di un altro, ma gli attribuiamo specifici pensieri, motivi, credenze, etc. del genere di quelli che crediamo di avere noi. La teoria della mente, di cui sono noti i correlati neurali, è indispensabile nella vita quotidiana, ma porta a credere cose false. È la fontana inesauribile delle pseudoscienze e delle idee complottiste. La scienza trova la verità perché il metodo che usa annulla gli effetti distorsivi della teoria della mente.
Gli storici scrivono libri nei quali discettano e dissentono senza arrivare mai a un accordo proprio causa del fatto che usano la teoria della mente per ricostruire i presunti ragionamenti che indussero Napoleone o Hitler a invadere la Russia, piuttosto che Mussolini a rifiutare il 28 ottobre 1921 di governare a fianco di Salandra. Domandarsi cosa passava per la testa di qualcuno nel passato significa non arrivare a nulla di fondato. Nel libro, Rosenberg passa in continuazione da un problema storico o storiografico a un’analisi naturalistica di come noi approcciamo il problema di spiegare un comportamento, quali credenze chiamiamo in causa e se siamo scientificamente o filosoficamente giustificati a pensare nel modo in cui pensiamo.
E’ tutta un inganno la conoscenza storica, quindi? Non è la domanda corretta. Rosenberg ricorda che le neuroscienze cognitive hanno identificato i processi e i luoghi nel cervello dove le informazioni che servono per agire sono codificate (elettrochimicamente), memorizzate, recuperate e distribuite in modo da produrre comportamenti volontari complessi: vaste reti neurali fanno questo lavoro in modi che non sono nemmeno lontanamente simili a ciò che la teoria della mente induce a pensare. In particolare, non vi è alcun livello di organizzazione nel cervello in cui vi sia qualche “contenuto”. Gli stati neurali che muovono il comportamento non rappresentano il modo in cui il mondo è organizzato, secondo le nostre credenze, né rappresentano alcuna azione dovuta ad aspettative o desideri. Parlare di “credenze” o “desideri” che avrebbero presa sul cervello è come quando i chimici ricorrevano al “flogisto” per spiegare la combustione. Siamo noi a creare i contenuti interpretando un comportamento o un contesto attraverso l’introspezione o sulla base di convenzioni sociali, etc. Se questi elementi soggettivi non esistono, cercare di attribuirli a figure storiche rende inverosimile ogni studio di carattere narrativo.
La teoria della mente sta alla psicologia come la teoria tolemaica sta all’astronomia o la teoria dell’impeto sta alla fisica o la teoria della fissità delle specie e il finalismo stanno alla biologia. Le intuizioni di senso, comune confutate dalle teorie scientifiche, erano funzionali per la sopravvivenza e riproduzione, non per spiegare come stanno le cose. Abbiamo capito e spiegato la natura dei processi fisici, chimici e biologici andando al di là del senso comune. Perché non aspettarsi che lo stesso debba accadere con i processi psicologici, abbandonando la teoria della mente?
A crollare, con l’affidabilità della teoria della mente, non è solo la credibilità dalla storiografia, ma anche del diritto, che mobilita la nostra dipendenza da narrazioni e dalla ricerca delle motivazioni di un comportamento. Che non sono la vera causa. La cultura umana e ogni civiltà conosciuta è costruita sulle fondamenta precarie della teoria della mente, che ci fa credere illusoriamente nel libero arbitrio, nella responsabilità morale, nella colpa, nelle norme etiche e nelle istituzioni politiche: senza queste invenzioni non potremmo più vivere. Per Rosenberg, se si vuole che le istituzioni sviluppino una maggiore efficacia nel controllare un futuro sempre più incerto, cioè mitigare le peggiori disposizioni umane che sono sempre in agguato, si dovrebbe intraprendere una strada che sia il meno possibile condizionata dalla teoria della mente.
How history gets things wrong. The neuroscience
of our addiction to stories
Alexander Rosenberg
MIT Press, Cambridge (Mass)
pagg. 304, $27.95
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