È passato a miglior vita, si dice spesso quando muore qualcuno. Ma alla 72esima edizione del Festival di Cannes il trapasso si è trasformato in una condizione transitoria. Così almeno sembrano raccontare i film in gara alla kermesse più sfarzosa e divistica (oltre che pessimamente organizzata) del cinema, che ha aperto con la commedia horror di Jim JarmuschI morti non muoiono. Non sarà forse l’opera migliore del regista americano, ma ha divertito la sala e ha portato sul tappeto rosso Selena Gomez, cantante e attrice, idolo degli adolescenti (anche produttrice della pellicola), il premio Oscar Tilda Swinton, lo spilungone malinconico Adam Driver, interprete dell’opera più vicina alla personalità di Jarmusch, Paterson, e il grande mattatore Bill Murray.
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L’attore interpreta il più anziano della strana coppia di poliziotti (Driver – Murray) che vigila l’ordine pubblico a Centerville nell’Ohio. Il villaggio non arriva a mille abitanti, ma ha un’impresa assai fiorente di pompe funebri, gestita dalla Swinton, buddista, sedicente scozzese, esperta nell’uso della katana. D’un tratto la luna si fa viola e i morti spuntano dal terriccio, riprendendo rigidamente a camminare. Bramano carne umana, ma soprattutto le cose che amavano in vita: caramelle e giocattoli (nel caso dei bambini), caffè, Xanax, connessione internet. Un manifesto ambientalista (la terra è uscita dal suo asse a causa dell’inquinamento), anticonsumista , cinefilo (strizza l’occhio a Kill Bill e ai master della paura) e utile ad aprire il festival in letizia (splatter).
Più inesperta la mano della trentaseienne Mati Diop, ma più urgente nella ricerca e nella verità che vuole trasmettere con Atlantique, opera prima della regista franco-senegalese. Anche qui i morti tornano, ma a chiedere la paga mai percepita da un costruttore di Dakar. Sono giovani muratori che, a causa di quei mancati salari, sono partiti per un viaggio della fortuna in Spagna. Affogati in mare, si reincarnano di notte nel corpo delle ragazze che hanno amato e torturano chi è stato con loro ingiusto. Diop non accusa, usa il fantastico per omaggiare intere generazioni senza sepoltura e si avvale di voci fuori campo (sempre insidiose), imperniando tutto su una storia d’amore. Il presidente di giuria Iñárritu non le rimarrà indifferente.
. Privato dell’acqua, invece di spopolarsi, Bacurau si serra in una guerriglia in stile vietnamita con note di realismo magico. Tra le rivoltose, Sonia Braga (Dominga), star delle telenovelas, già protaCome potrebbe valorizzare il surreale western Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles, che racconta una storia di resistenza di un villaggio sperduto nel nulla del Brasilegonista, in un ruolo molto simile, del film di Kleber Mendonça Filho, Aquarius.
«Resistere!», invita a gran forza anche l’83enne Ken Loach, che a Cannes ha già vinto due Palme d’oro (Il vento che accarezza l’erba, 2006 e I, Daniel Blake, 2016). Sorry we missed you è una delle sue riflessioni più amare e angosciose sul precariato, sull’assottigliamento dei diritti acquisiti dei lavoratori e sulle ricadute sui rapporti familiari. Ricky (Kris Hitchen) è un padroncino per conto terzi, strozzato dalla tempistica delle consegne, ansioso e sfinito a tal punto da fare implodere la sua famiglia.
Ricky è simile alla gente delle banlieue che Ladj Ly tratteggia in Les Misérables. Documentarista ribelle (ha messo online tutti i suoi lavori gratuitamente), mette in atto un potente affresco di povertà metropolitana contemporanea, i cui protagonisti sono poliziotti e in cui la gente è unita solo dal calcio e divisa da tutto il resto: colore della pelle, religione, ma soprattutto dalla lotta per la sopravvivenza.
Intenso e coinvolgente è Dolor y Gloria, ultimo capitolo della trilogia di Pedro Almodóvar, formata da La legge del desiderio e La mala educación. La pellicola, per esplicita ammissione in parte autobiografica, spiega la crisi creativa di un regista, Salvador Mallo, interpretato da un bravissimo Antonio Banderas, impossibilitato a iniziare le riprese di un nuovo film a causa di dolori fisici insopportabili, cui si aggiungono la depressione e le dipendenze da alcol e cocaina. Ci sono le facce squadrate e tese tipiche dell’immaginario almodovariano, i colori vividi, amalgamati a una forte onestà narrativa: una prova di maturità registica e umana, un saggio di verità.
L’opposto di Rocketman (fuori concorso) di Dexter Fletcher, biopic di Elton John, abilissima operazione commerciale di cui il cantante è produttore assieme al marito David Furnish. La vita del baronetto guardata dietro le quinte senza sconti, dalla scoperta del talento musicale alla discesa agli inferi per droga, sessuomania, alcolismo. Un musical con tutti i crismi giusti, grazie anche all’ottima performance di Taron Egerton (con cui Elton ha duettato al festival), pronto per grandi incassi al botteghino. Più che il genio artistico spicca il bernoccolo per gli affari: Elton John, oltre ad accaparrarsi i proventi, sceglie cosa dire della sua vita, prima che lo facciano altri e scusa le sue mancanze in nome di una infanzia infelice.
Avrebbe dovuto annusare il fiore prodotto in laboratorio dalla scienziata di Little Joe di Jessica Hausner, che ha trasposto il tema del malessere esistenziale in chiave fantascientifica. Nemmeno paragonabile
al suo Lourdes (2009), originalissima osservazione sull’uso utilitaristico della fede. Meglio gli zombie.
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