Lawrence Carroll, scomparso il 21 maggio a 65 anni, inaspettatamente, aveva un viso d'angelo e una vita da nomade. Si era
fermato in Italia negli ultimi vent'anni, anche là inquieto, però, trovando pace vicino al Lago di Bolsena dopo una lunga permanenza a Venezia. Dopo una vita trascorsa dalla nativa Melbourne a Los Angeles e New York, per non segnare
che qualche tappa saliente, ebbe bisogno di sempre più solitudine a mano a mano che la sua notorietà si consolidava. Non è
stato facile emergere, per lui, dedito a monocromi bianchi puntellati da rose, in cui la tela dipinta si confondeva con lenzuola
piegate, ricordi di letti veri, rammenti e omaggi a persone care come se dipingesse sia la luce della mattina sia il sudario
della sera notte finale. Aveva iniziato a essere noto dopo che Harald Szeemann lo aveva chiamato per una mostra dedicata alla
performance; in seguito aveva partecipato a Documenta e, nel 2013, era stato protagonista insieme a Studio Azzurro e a Josef
Koudelka del Padiglione Vaticano alla Biennale di Venezia.
L'Italia gli aveva offerto alcune vaste occasioni espositive al Museo Correr a Venezia e al MamBo di Bologna, nonché vivaci rapporti con gallerie come Studio La Città e Michela Rizzo, che affiancavano
la più nota Karsten Greve, collezionisti come Giuseppe Panza di Biumo e Laura Mattioli, una lunga esperienza come docente presso l'Università Iuav e molti legami intellettuali: tra questi, i più
cari furono quelli puramente mentali con Giorgio Morandi e Giotto. Gli artisti possono parlarsi anche fuori dal tempo. Con
loro riusciva a mediare il rapporto con l'Europa e la sua tradizione di icone ferme, da un lato, e dall'altro le sue radici
lontane, dove la luce australiana e quella di Los Angeles si presentavano accecanti. I suoi atelier eran sempre luoghi di
meditazione pratica, in cui depositava e spostava le sue cose come in una mostra permanente e in un pensiero vagante, alla
ricerca di equilibri formali capaci, anche, di commuovere. La filosofia di vita che emergeva da quelle stanze, sovente labirintiche,
era un attaccamento quasi religioso ai valori della famiglia e dell'interiorità, nonostante una mancanza apparente di narrazione.
Una superficie bianca, infatti nelle sue mani si trasformava in mille cose, persino in verdi, rosa e giallini chiari come
muffe fiorite sopra i ricordi oppure oggetti che, da quelle superfici, sembravano emanare come ectoplasmi.
La sua caparbia volontà di non essere assimilato ad alcun gruppo e l'affezione un po' antica per la pratica del disegno, unita
a una severità con se stesso, anzitutto che non gli consentiva troppe parole e che lasciava parlare le opere, hanno forse
rallentato il suo successo. Nonostante la presenza in collezioni di musei molto prestigiosi, solo ora stava diventando una
presenza classica e irrinunciabile nel panorama artistico. Attendiamo una rilettura del suo lavoro precisa e retrospettiva,
non potendolo più visitare nelle sue stanze silenti.
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