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Ecco chi ci propina la cucina

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Ecco chi ci propina la cucina

La copertina della rivista «la casa nuova» dell’agosto-settembre 1954 che pubblicizza la cucina moderna
La copertina della rivista «la casa nuova» dell’agosto-settembre 1954 che pubblicizza la cucina moderna

Dovete acquistare o rinnovare casa? Rifare un arredamento che non risponde più ai vostri gusti o alle nuove esigenze? Ampliare una stanza, cambiare il salotto, rifare la cucina? Qualunque sia la vostra richiesta basta un click del mouse e sullo schermo di una qualsiasi web TV troverete la vostra soluzione ideale. Non sarete più costretti ad entrare timorosamente in un studio di architettura, varcare la soglia di un costoso showroom o perdervi nei faticosi labirinti di quegli estenuanti outlet del design dove comprare un letto o un divano richiede quasi un’intera giornata.

Il ciclone digitale ha abbattuto le ultime barriere che si frapponevano alla completa democratizzazione domestica, aprendo a un populismo estetico che promette la liberazione dalla tirannia delle blasonate riviste d’arredamento. I consumatori sono diventati followers di nuovi guru, che poi sono quasi sempre personaggi anonimi , come gli impresari edili, i costruttori, gli architetti senza patente di programmi, come House Hunters o Property Brothers. Grazie al digitale terrestre, basta sintonizzarsi su Fixer Upper(case su misura) o, per i più avventurosi, seguire i consigli in diretta di DIY Network(Do it yourself) che sollecitano l’istinto del self made man che resiste in fondo a ognuno di noi.

Eppure, come ci spiega Maria Teresa Feraboli in un libro che non dovrebbe mancare sul comodino di chiunque sia interessato a capire come sarà la casa di domani, più che di un fenomeno nuovo si tratta dell’ultimo (per ora) capitolo di una storia che ha segnato lo sconquasso della modernità Walter Benjamin sintetizzò così: «per l’abitare nel vecchio senso, dove l’intimità stava al primo posto , è suonata l’ultima ora».

La bulimia del web, dei blog, dei digital magazines è un generalizzato “rompete le righe”: dietro però si nascondono ansia e incertezza di un pubblico di utenti disperati, alla deriva di venditori che promettono una felicità a poco prezzo, a diretta portata di mano: come la casa del Grande Fratello, la casa ideale è uno spazio aperto e indefinibile dove ognuno può riconoscere i segni di dispensatori di consigli su misura come psicologici da talk show.

Come un vento d’autunno, l’utopia del moderno spazzò nel secolo le foglie depositate in ogni angolo delle vecchie case : “abitare liberamente” implicava che una semplice felicità potesse fare a meno delle cose e dei consigli degli esperti, perché ognuno diventava l’architetto di se stesso.

Ma invece di rassicurare, l’effetto del messaggio fu per molti letale: il colpo di maglio su certezze consolidate da libri e manuali che sin dalla fine dell’800 avevano invaso il mercato editoriale, convincendo casalinghe giudiziose a diventare artefici della propria felicità domestica.

Cominciarono scrittori, artisti e letterati: Poe, Baudelaire, Stevenson e Oscar Wilde. In vibranti pamphlet e accalorati discorsi davanti a un pubblico di signore adoranti, descrissero case da sogno in cui ogni stanza doveva riflettere l’identità dei proprietari , secondo un ideale di bellezza in cui l’arte coincideva con la vita. Un sogno troppo alto per poter essere seguito da quella nuova borghesia industriale che sapeva come far soldi ma non sapeva come abitare. Scesero allora in campo i manuali – in Italia i primi furono editati a Milano dalla Hoepli – in cui cominciava a farsi strada l’idea di una casa a portata di mano di tutti quelli che disponevano di risorse ma scarseggiavano di gusto. Una casa borghese e ragionevole, senza i voli pindarici di Huysmans o di D’Annunzio: con i piedi per terra, magari affondati in moderni tappeti di serie o appoggiati su comodi poggiapiedi come quelli reclamizzati con successo dall’IKEA, sfoderabili, igienici e dotati di contenitori per giornali.

Come far vivere meglio con un occhio al design e l’altro alla comodità (e al prezzo) divenne l’imperativo didattico delle riviste d’architettura, che non caso in Italia si chiamarono «Domus» e «La Casa Bella»- generose dispensatrici di esempi e suggerimenti.

Di grande successo, il manuale di Lidia Morelli – La casa che vorrei avere - fece da battistrada nel 1931 verso un cauto avvicinamento al razionalismo funzionale: eliminare gli eccessi eclettici comportava però anche stemperare l’iconoclastia della nouvelle vague architettonica con la sua ossessione per la standardizzazione, dietro cui si paventava la “noia del domani”.

Ma fu il dopoguerra, con l’esplosione dell’edilizia e dell’industria del design, la stagione d’oro dell’arredamento, il trionfo degli interni. Ponti fu un instancabile divulgatore, il motore di un movimento estetico che si produsse in una miriade di iniziative, propagandate da suoi allievi o seguaci, sino al punto da tentare presto la carta della televisione. Abitare sullo schermo fu dal 1955 l’obiettivo della Rai, non a caso definita «il focolare degli italiani». «La casa dell’uomo», «Viaggio tra quattro pareti», «Il piacere di abitare» segnarono l’ingresso degli architetti nel tubo catodico, ma soprattutto l’ingresso della casa nell’etere. Il passo dalla TV al web è stato veloce e conseguenziale: allo stesso tempo però ha segnato uno scarto radicale tra una visione didattica di carattere ideale e una prospettiva pragmatica fatta di esperienze e di espedienti come quella appunto della cosiddetta «televisione della realtà».
Case da sogno. Storie del paesaggio domestico 1840-2019, Maria Teresa Feraboli, Bolis Edizioni, Bergamo, pagg.154, € 30

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