Aveva già tutto in casa, a portata di mano, nei ricordi di guerra e nei diari delle vacanze. Quando Nicolas Liucci-Goutnikov, con quel trattino che lega il cognome del padre e della madre, scopre l’Unione Sovietica nei primi anni 80, l’Unione Sovietica è già storia di famiglia.
È la storia di un nonno napoletano, comunista, che durante il fascismo si rifugia in Francia, e di una nonna francese altrettanto comunista in marcia per la liberazione delle donne. Ed è la storia di un padre, figlio dell’élite del Pcf, che trascorre l’estate in Crimea nel 1964, campo pionieri, e a sedici anni conosce la futura moglie, tante lettere, e l’amore cresce. E ancora è la storia di una madre russa, figlia di un militare che arriva al Reichstag di Berlino e che negli anni 50 viene cacciato dall’esercito perché in vista della promozione a colonnello si permette di ricordare che anche il suo camerata merita lo stesso grado, ma essendo ebreo gli viene negato. La storia prosegue e nel 1971 la madre di Nicolas giunge a Parigi con un visto turistico, si sposa, diventa cittadina francese e non torna più in patria, se non in visita ai genitori. Di cosa sia stato lo stalinismo si parla e anche no. Si sa e si finge di non sapere. A tavola si discute d’altro.
Il figlio nasce nel 1977, nell’anno in cui Leonìd Brèžnev firma la nuova costituzione sovietica che ammette in paradiso oltre agli operai e ai contadini anche l’intellighenzia. In uno dei tanti viaggi oltre cortina, Nicolas ancora bambino scopre una Mosca vestita a festa dalla propaganda, immensi drappi rossi, slogan di un’eterna unione proletaria, e quel colore, quella grandezza restano negli occhi e diventano storia personale, studio, scelta di campo, l’arte sovietica. Nicolas Liucci-Goutnikov entra al Centre Pompidou, nel 2016 cura la mostra Kollektsia!, omaggio all’arte “non conforme” al regime sovietico, e oggi è il responsabile della splendida mostra Rouge. Art et utopie au pays des Soviets, aperta al Grand Palais di Parigi fino al primo luglio.
Sembrerà strano, ma anche questa è una mostra di famiglia, un travolgente ritratto di famiglie d’artisti, gioiose e belligeranti, in lotta una contro l’altra per la definizione di che cosa sia la vera arte socialista, un’arte che la mostra, con una selezione di oltre 450 opere, segue nella sua evoluzione, dall’euforia delle avanguardie al passaggio al realismo.
Un’arte che doveva fondersi nella vita e trasformarla completamente. Un’arte che non è mai stata utopia, parola sconosciuta al linguaggio artistico e invece intima alla riflessione critica a posteriori. Un’arte dunque concreta, «perché davvero questa generazione di ragazzi, di venti e trent’anni, Majakovskij, Rodčenko, Klucis, Lissitzky, la Stepanova, volevano cambiare il mondo», racconta Nicolas Liucci-Goutnikov nel suo studio di fronte al Beaubourg. «Oggi questo vincolo con la politica è scomparso, e al suo posto è rimasta l’arte per l’arte, l’arte per il mercato dell’arte, e trovo che questo sia tragico. Ho voluto far vedere che cosa è successo un secolo fa, quando gli artisti dei primi anni 20 hanno sentito la forza rivoluzionaria del comunismo, la forza dell’arte di massa, e sono andati più in là degli stessi leader politici». Troppo, evidentemente.
Altra immagine di famiglia, una partita a scacchi, un’abitudine a casa Liucci-Goutnikov come in ogni cucina pre e post Perestrojka, e nonostante nella prima sala del Grand Palais risplenda la maquette del monumento della Terza Internazionale, realizzato da Tatlin nel 1920, e nonostante quell’immaginaria spirale di vetro e acciaio alta 400 metri, mai realizzata, tolga li fiato, è la scacchiera di ceramica di Natalia Danko, i rossi contro bianchi, i comunisti contro i reazionari, a dare il ritmo all’intera mostra, a lasciare intuire le mosse degli artisti e del potere, e a trasformare il percorso tracciato da Liucci-Goutnikov, dalla mobilizzazione delle masse alla mitizzazione di Stalin, in una partita entusiasmante e tragica. Cos’è del resto il Puro rosso di Rodčenko, monocromo presentato alla mostra 5x5=25 come «l’ultimo quadro», se non l’assalto al “re” e a ogni suo potere?
E cos’è quella cassa da morto costruita intorno al monumento a Bakunin ideato da Boris Korolev nel 1918, se non la contromossa dei vertici per censurare lo stile cubofuturista della scultura, incomprensibile e quindi inviso alle masse? Fin dall’inizio fu uno scatto matto annunciato, «ma non perché Lenin o Trockij, che pure avevano difeso i musei dalla furia rivoluzionaria degli artisti, avessero in mente un programma iconografico preciso. Semplicemente, come la gente comune, non capivano le avanguardie e le consideravano brutte. All’inizio lasciarono fare, poi intervennero. E basterebbe confrontare il club degli operai ideato da Rodčenko per il padiglione sovietico dell’Urss all’Esposizione di Parigi del 1925 e la casa di Lenin con i soprammobili di cristallo, i centrini, le poltrone, gli oli alle pareti», prosegue Liucci-Goutnikov. «E sarà proprio questo stile accomodante, vecchio come la pittura degli “ambulanti” che torna in voga negli anni 30, a ispirare Stalin. La sua Mosca sembra imperiale, in realtà è piccolo borghese». La partita procede, la strategia cambia e nel 1929 l’Associazione degli artisti della rivoluzione, l’AKhR, dichiara che compito dell’artista è trasfigurare «in forme realiste, comprensibili alle più grandi masse di lavoratori, l’autentica realtà rivoluzionaria». Dall’arte di massa all’arte per le masse. Lo Stato diventa produttore di immagini e dirige il gioco. Majakovskij e Klucis vengono uccisi, Rodčenko è accusato di formalismo, «l’uragano di fatti» di Dziga Vertov cede il passo al vaudeville di Volga Volga, e al posto delle certezze dei “produttivisti” sorge il radioso avvenire nel quale si tuffano i bagnanti di Alexei Pakhomov nel 1933, e verso cui corrono le ragazze di Aleksandr Deïneka nel 1944.
Dieci anni dopo è il finale di partita e la mostra si chiude sul ritratto di Viktor Govorkov, che vede Stalin seduto alla scrivania nell’ufficio del Cremlino, oltre la mezzanotte come indicano le lancette della Torre Spasskaja e la stella rossa accesa, «preoccupato per ognuno di noi», recita sinistramente il testo. E se quei “noi” fossimo noi? Se la famiglia di Nicolas Liucci-Goutnikov si fosse allargata? E se ci fosse un altro grande altro, più oscuro, che ci obbliga a vivere non più un radioso avvenire ma una banale, radiosa giornata su Instagram?
Chi l’ha detto che questa partita a scacchi è finita.
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