Cultura

La posta in gioco: l’europeizzazione dell’Europa

  • Abbonati
  • Accedi
storia comunitaria

La posta in gioco: l’europeizzazione dell’Europa


9 novembre 1989. Ragazzi della Germania Ovest seduti in cima  al Muro di Berlino
9 novembre 1989. Ragazzi della Germania Ovest seduti in cima al Muro di Berlino

Misurarsi con gli ultimi settant’anni di storia europea mette davanti a una serie impressionante di ostacoli. Farlo fissando - come in The Global Age – il limite temporale al 2017 espone al rischio di una prospettiva teleologica legittimata dal declino del modello col quale la costruzione fu attuata nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Altro elemento di complicazione riguarda le narrative che si sono concentrate sul medesimo quadrante, alcune delle quali, quella di Tony Judt più di recente, hanno dilatato lo spazio d’interpretazione della vicenda storica dell’Europa contemporanea.

L’Europa occidentale postbellica obbligata a unire le forze per sopravvivere al conflitto bipolare, quella che dopo secoli di dominio planetario e splendore intellettuale ed economico si acconciò a ridimensionarsi a mercato regionale come funzione di un più ampio disegno atlantico, è una storia raccontata milioni di volte, la cui ripetizione suona più come un mantra che come un riferimento di cui compiacersi. In questo volume che completa la Storia d’Europa Penguin, Ian Kershaw dà conto delle incoerenze delle narrazioni convenzionali e sebbene non se ne dissoci programmaticamente interloquisce con esse in maniera originale. Certo il punto di partenza rimane la storia parallela delle “due Europe” divise ed entrambe congelate in modelli eterodiretti impossibilitati a dialogare. E benché prevalga l’ammirazione per l’affermazione dei valori liberali nella parte occidentale, e l’elogio per la diffusione della prosperità congiunta all’affermazione di diritti percepiti ora come inalienabili, tale entusiasmo dialoga con le incoerenze costitutive di un’integrazione incapace di guardare verso oriente se non con diffidenza e timore.

Non si tratta dunque di una descrizione del percorso che ha condotto alla ri-costruzione delle identità nazionali europee all’interno di un’ipotetica comune idea, ma di una narrazione che mostra la soluzione di continuità che l’Unione ha marcato. E ciò perché, sebbene a quarant’anni dall’elezione del primo Parlamento europeo esista un’entità sovranazionale che raduna 27 Stati sovrani, i confini materiali di tale entità sono diversi da quelli delle origini. Le aspettative con le quali l’integrazione ha proceduto sono oggi talmente eterogenee rispetto ai decenni iniziali da rendere vana l’evocazione dello “spirito delle origini”. Quello spirito - Kershaw lo illustra bene - era esemplato sugli esiti del trentennio di guerra civile europea e sulla necessità di annullare senza rielaborare la memoria di misfatti atroci. L’avvio del processo di unificazione era incorniciato da idealità resistenziali filtrate attraverso le esperienze costituzionali e dal rigetto dei nazionalismi, ma riguardava un piccolo territorio definito dalla Guerra fredda, che segnava un’inedita frontiera tra Oriente e Occidente. Un confine che attraversava appunto l’Europa e aveva nella Germania divisa il suo emblema.

Osservata in questo senso l’unificazione dell’epoca postbipolare riguarda davvero l’Europa tutta e la riguarda perché le classi dirigenti europee degli anni Novanta compresero che la democratizzazione dei Paesi appartenenti all’ex sfera sovietica doveva marciare verso il modello “comunitario”. L’azzardo di allargamenti così significativi - perché azzardo fu - aprì una stagione che mise a dura prova il funzionamento delle basi costitutive della Ue. Si tratta di un terzo tempo dell’integrazione continentale che difficilmente è paragonabile al cammino delle origini. È in questo campo, quello dell’europeizzazione dell’Europa postguerra fredda, che si sta giocando una partita dagli esiti quanto mai incerti. Prescrivere il modello elaborato da Francia, Germania federale e Italia fu piuttosto automatico per il Regno Unito che ripetutamente guardò al successo della formula comunitaria negli anni Sessanta. Analogamente gli allargamenti mediterranei a Spagna, Portogallo e Grecia giustificarono la pomposa retorica della “potenza civile” innervata dal modello di economia sociale di mercato che, temperando gli eccessi del capitalismo atlantico, avrebbe dovuto riprodurre all’infinito progresso sociale e Welfare State. Ammesso che quell’immagine sia mai stata realtà, certo è che essa ha presto mostrato la sua evanescenza.

La costruzione europea degli anni Novanta è anche quella della sbornia neoliberista e dell’importazione di un vangelo mercatista destinato a stravolgere il profilo mite e inclusivo che caratterizzava lo spirito comunitario delle origini. In quegli anni si aprirono crepe profonde nell’immagine levigata di un edificio non finito che pretendeva di rivaleggiare da superiori altezze morali con gli Stati Uniti. La presa di coscienza che la fine della Guerra fredda segnava anche il momento in cui le alternative al capitalismo potevano essere sotterrate, coincise con un’accelerazione sul versante dell’integrazione economica, che portò all’introduzione del segno tangibile dell’integrazione politica: la moneta unica. Ma l’Eurozona non è l’Europa e men che mai è l’Europa immaginata dagli ideatori del progetto comunitario. Lo spazio contemporaneo dell’Unione non deve emanciparsi dall’onta della sconfitta e non deve gestire i costi politici del conflitto bipolare. L’Europa contemporanea è ricca ma paralizzata, sempre più vulnerabile e diseguale, fondata sul dogma della crescita delle esportazioni che soffoca il mercato interno, guidata da una classe politica incapace di governare le emergenze e di programmare il futuro e, ora, per di più delegittimata da sovranismi difficili da rubricare in un’unica famiglia.

L’Europa post Brexit, quella che sperimenta per la prima volta la disgregazione, è assediata dal risorgere d’insicurezze che si ritenevano superate, da nuovi timori che essa non riesce a decifrare, dal radicarsi di ideologie che riecheggiano il peggior repertorio fascistoide. È una dimensione di stagnazione prolungata che l’autore spiega da britannico che osserva la bancarotta politica del suo Paese. Così come riflette sull’incapacità del nucleo originario di proporre qualcosa che vada oltre la sopravvivenza della dimensione attuale. Una sopravvivenza che da sola, però, sarà presto insufficiente ad arginare un dileggio fondato sull’ignoranza dei successi descritti in questo libro.

The Global Age. Europe, 1950-2017; Ian Kershaw, New York, Viking, pagg. 670, $ 40

© Riproduzione riservata


>