Dove va Dana Schutz? A poco più di quarant’anni quest’artista assai notevole è al centro della scena americana, e certo non solo per lo scandalo suscitato dal suo Open Casket, un quadro esposto alla Whitney Biennale del 2017 che provocò fiere proteste e la richiesta (non accolta) di incenerirlo. Quel dipinto aveva una fonte dichiarata, la foto di un ragazzo afro-americano di quattordici anni, Emmett Till, che due bianchi uccisero brutalmente nel 1955, sfigurandone il volto e gettando il corpo in un fiume del Mississippi. La madre volle allora che i funerali si svolgessero con la bara aperta (Open Casket, appunto), perché la violenza usata al figlio fosse mostrata a tutti. Richiamare quell’episodio era come dire che dal 1955 ad oggi ben poco è cambiato. Dire, anzi urlare: il volto selvaggiamente sfigurato è reso come un un grumo di denso impasto di colore, modellato, anzi flagellato dal pennello e dalla spatola, quasi come la vittima lo fu dai suoi aggressori. Ma il fatto che l’artista fosse bianca scatenò dure reazioni, e alcuni afro-americani chiesero di distruggere il quadro, accusando l’artista di volersi impadronire, per proprio vantaggio, di un dolore che non era il suo.
Anche i quadri dell’ultima mostra personale di Dana Schutz, appena chiusa alla Petzel Gallery di New York, stanno avendo un impatto notevolissimo. Nei suoi dipinti colpiscono una non comune abilità compositiva e il personalissimo equilibrio fra l’evidente tensione figurativa e una sorta di implicita astrazione coloristica che sembra lacerare e negare le immagini mentre le dispone sulla tela; ma anche la scelta di temi, spesso evidenziati dal titolo, che promettono una forte carica narrativa, nascondendola poi dietro figure enigmatiche e ambigue. Dipinti con veemenza solo in apparenza spontanea, i suoi quadri catturano lo sguardo proponendo situazioni bizzarre, grottesche, inesplorate, dove l’informazione (il soggetto) si articola e si occulta dietro la deformazione. Eppure per ciascuno di essi, si può scommettere, c’è non solo una “fonte” (come per Open Casket la foto del 1955), ma un’eccezionale abilità nel manipolarla e dissimularla, prelevandone però un intimo nucleo di pathos e rilanciandolo su un registro inatteso: la parodia, il fumetto, l’eccesso di espressione. In ogni quadro, un urlo di dolore.
È questo il caso di The Visible World (2018), il più commentato fra i quadri della sua ultima mostra. Questa grande tela (m. 2,75 x 3,55) mostra una donna nuda, stesa su una roccia in riva al mare, con un uccellaccio appollaiato sulle gambe, un volto-maschera con gli occhi sbarrati che ci fissano, e fra le onde strani detriti e una nave lontana. «Questa vamp sulla roccia potrebbe sembrare sopravvissuta a un naufragio, derivando da una qualche immagine di Géricault o Delacroix. C’è qualcosa di ridicolo nei suoi grandi occhi verdi asimmetrici e nell’assurdo uccello che le tiene compagnia. Eppure il suo personaggio alla Bette Davis è solo uno dei tanti elementi vivaci che ci attraggono: i suoi occhi entrano in diretto contatto con noi, e la sentiamo dotata di una propria personalità»: questo commento di Sanford Schwartz rende bene il fascino di un dipinto che sembra evocare una qualche inafferrabile tradizione figurativa (pittura romantica? il cinema? la cultura popolare?). Altri critici hanno citato come precedenti le Demoiselles d’Avignon di Picasso, l’Olympia di Manet, la Creazione di Adamo di Michelangelo. Come avvertissero il peso della tradizione pittorica, senza davvero sapere in quale direzione cercarne le tracce.
Eppure, per una volta, questo quadro dice abbastanza di sé. Fra tutte, la citazione dell’Olympia è la più appropriata, perché ha a che fare con il soggetto: una donna nuda distesa che ci guarda fisso negli occhi, con sfrontatezza (Manet) o con sbalordimento e sfida (Schutz). Il nudo di Manet (1863) è il perno di una tradizione tematica di lungo periodo: è ancor oggi un’icona cento volte citata e ripresa, ma presuppone le Veneri di Tiziano e quella di Giorgione (1510), che per primo introdusse il nudo femminile disteso nel paesaggio come tema principale di un quadro. Giorgione traeva quel soggetto non solo dalla propria immaginazione erotica, ma dalla scultura greco-romana con le sue Veneri e ninfe che ostentavano una nudità innocente e inevitabile, e proprio al suo tempo facevano la loro apparizione nelle prime collezioni di scultura classica. Ma qual è, tra le figure del mito antico che riportarono in onore il nudo femminile nell’arte europea, il vero precedente del nudo di Dana Schutz? Non può essere che Leda, la sola che l’arte antica e quella del Rinascimento usavano rappresentare in stretta interazione con un uccello. Quello che incombe sulla protagonista di The Visible World non è certo un cigno come il compagno di Leda, anzi non appartiene a nessuna reale ornitologia, ma il suo immediato rapporto compositivo con la ragazza nuda deve rifarsi a una più o meno consapevole memoria del mito di Leda, aggredita e stuprata da Giove trasformato in cigno, come si vede in affreschi pompeiani, sculture e rilievi greci e romani, invenzioni pittoriche di Correggio, Leonardo, Michelangelo e cento altri. Un coito innaturale, da cui nacquero poi due grandi uova, con dentro due coppie di gemelli (Castore e Polluce; Elena e Clitennestra).
Anche la nuda di Visible World si presta passivamente all’assalto dell’uccellaccio che la sovrasta, e che come il cigno-Giove incarna il principio maschile, dominante e libero di muoversi (ha le ali dispiegate), mentre la ragazza nuda è immobilizzata da un legaccio che le stringe le gambe alla caviglia. Dana Schutz ha dunque in mente la lunghissima tradizione del nudo femminile disteso nel paesaggio, ma anche il mito di Leda, anch’esso ricorrente in una tradizione di lungo periodo, che arriva fino a Cézanne (c. 1880) e ad artisti americani come Cy Twombly (1962) o Carole Harmer (1983); per non dire di una serie televisiva canadese (Orphan Black, cinque stagioni, 2013-2017), dove temerari esperimenti di ingegneria genetica prendono il nome di “progetto Leda”.
La nuda di Dana Schutz è un po’ Venere (per la postura e la spuma delle onde), un po’ Leda (per l’uccello appollaiato sopra). Ma ci dice qualcosa di più coi suoi gesti: con la sinistra indica l’uccellaccio incombente, che le dà in offa una sorta di gigantesco lampone, quasi a compensare la violenza di quella sua presenza ingombrante. La destra, col braccio pendulo come nella frequente gestualità di figure morte o morenti (dal Cristo della Deposizione di Raffaello al Marat di David), punta l’indice in basso, su un mare in cui galleggiano indefiniti detriti. Fermiamoci qui, senza inseguire altri dettagli: la nuda di Dana Schutz, si può azzardare, è una sintesi pittorica della condizione femminile. Non può muoversi (ha i piedi legati) e non può parlare (la bocca è sigillata), ma si difende gesticolando, additando quel che le accade. Mostra l’uccello che la usa come piedistallo (se questa è Leda, il maschio che le usa violenza), mostra il mare da cui –come Venere—è sorta, e che non è quello primigenio di Botticelli, ma un mare ricolmo di sporcizie, forse lasciate cadere dalla nave che s’allontana sulla destra. È ben cosciente di quel che le accade, i suoi occhi non sono semichiusi, come una Venere che dorme in un paesaggio o una Leda nell’estasi erotica; ma spalancati, con le pupille dilatate a dismisura. È immobile in un’iconografia immemoriale, ma i gesti e lo sguardo ci catturano, ci interrogano. Ci dicono, forse, che il Visible World di una donna del nostro tempo è ancora popolato di incubi come questo.
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