Parlare con Michael Zantovsky significa essere trasportati in un pezzo della nostra storia recente. “Nostra” perché la Rivoluzione di Velluto nella Praga del 1989 ci riguarda tutti, così come Vaclav Havel è uno statista la cui azione e il cui esempio non si esauriscono nei confini cechi.
Zantovsky, nato il 3 gennaio del 1949, in quell’autunno aveva 40 anni. Corrispondente per Reuters, militante dell’opposizione antisovietica e poi addetto stampa e consigliere di Havel, aveva conosciuto il futuro presidente già nel 1983: «Era uscito da qualche settimana dal carcere dopo quattro anni e mezzo di detenzione. Io lavoravo come psicologo in una clinica psichiatrica; lui si interessava - si è sempre interessato - di psicologia, conosceva diversi professionisti. Una sera eravamo a cena da conoscenti comuni, abbiamo cominciato a parlare scoprendo di avere opinioni simili un po’ su tutto, dalla politica alla letteratura fino alla musica. Nel tempo è nato un legame che si è approfondito e consolidato», racconta nel Centro ceco di Milano, che si appresta ad ospitare un Istituto Havel nel solco della Biblioteca intitolata allo statista a Praga, diretta proprio da Zantovsky. Il quale, con voce pacata e gli occhi chiari che seguono il filo del discorso – sorridendo o rannuvolandosi – riprende a raccontare: «Da quella sera abbiamo cominciato a passare sempre più tempo insieme. Si moltiplicavano gli incontri… firmavamo petizioni, partecipavamo alle proteste che si susseguivano in Cecoslovacchia. La Rivoluzione di velluto arrivò inattesa, anche se lo spirito dei tempi già segnalava che stava accadendo qualcosa: dall’inizio del 1989 e per l’intero anno c’erano state molte grandi manifestazioni, io le seguivo come reporter. Ma nessuno si aspettava che tutto sarebbe accaduto proprio quel venerdì: il 17 novembre. Noi stavamo organizzando una mobilitazione per il 10 dicembre, che è la giornata internazionale per i diritti umani. Gli studenti ci anticiparono con una protesta repressa in modo brutale dalla polizia. Havel, leader informale dell’opposizione, non era a Praga e tornò di corsa: nel fine settimana cominciarono le riunioni da cui poi nacque il “foro civico” che si occupò innanzi tutto di coordinare le successive manifestazioni. E così i raduni, che all’inizio coinvolgevano 10/20mila persone, cominciarono a ingrossarsi fino alle 200/250mila persone, per arrivare a una folla di mezzo milione. In quel momento fu chiaro a tutti che il comunismo era finito».
La consapevolezza che stava cambiando una situazione parsa irriversibile per quarant’anni si materializzò dunque in poco tempo, ma ci sarà stato un momento, una fase, qualcosa che segnò il salto di qualità.
«In quei giorni – rievoca Zantovsky - non avevamo né tempo né energia per vivere o esprimere le nostre emozioni. Le settimane immediatamente successive trascorsero molto velocemente, il potere passò da una parte all’altra, in media dormivamo due ore a notte, andavamo avanti ad adrenalina. Si cercava di sopravvivere e di fare quel che dovevamo. C’è una cosa che ho ben impressa, che mi colpiva: guardando Havel e gli altri che parlavano dalle tribune, c’era dalla parte opposta la folla che si comportava come un soggetto unico, come un organismo che dichiarava una sua volontà, che dialogava con chi era su quei palchi, addirittura scherzava. Da psicologo mi stupiva molto. In queste settimane a Praga sono in corso delle manifestazioni imponenti, ma non riconosco in questa folla la compattezza di quel momento: è indicativo del fatto che sono cambiati i tempi».
Havel ha scritto molto sulla propria parabola personale e politica, inevitabilmente intrecciate. Il suo libro più noto, Il potere dei senza potere (Csoe), raccoglie le memorie dal carcere scritte su carta velina, in Interrogatorio a distanza (Garzanti) ricorda gli amati ambienti artistici e teatrali praghesi e sottolinea il senso che si nasconde nella poetica dell’assurdo («senza la vitale lotta con l’esperienza dell’assurdo, non ci sarebbe niente a cui aspirare»), in Meditazioni estive (Feltrinelli) riflette, con amarezza, sull’ineluttabile divorzio tra Cechia e Slovacchia. E viene da chiedersi come fosse “l’uomo” Havel nella quotidianità, nella vita semplice, al netto della militanza, dell’energia che - ad esempio - lo portò a fondare con altri dissidenti “Charta 77”, nato per difendere il gruppo musicale underground Plastic People of the Universe, perseguitato dal regime e poi diventato punto di riferimento per la difesa dei diritti umani.
«Una cosa incredibile del suo carattere – racconta Zantovsky - era la capacità di comportarsi allo stesso modo sia che fosse nella veste di statista sia che si trovasse con i suoi amici, e cioè in maniera gentile e discreta. Ci sono molte testimonianze, su questo, anche dei secondini sui rapporti che aveva instaurato con loro durante la prigionia. Era una persona modesta ma aveva sempre delle idee e opinioni interessanti, condite con il senso dell’humor ceco, un po’ nero. Certamente la sua passione per il teatro si rifletteva anche nella comunicazione umana e politica, improntata al dialogo che era il suo modus a scapito del monologo: non affermava unilateralmente i concetti. Aveva un forte senso della storia, della narrazione costruita con un inizio, un suo sviluppo, un climax, una catarsi e poi una risoluzione. Questo è evidente anche nei suoi discorsi che, a differenza di quelli dei politici di oggi, avevano una struttura molto chiara, sorretta da un contenuto altrettanto chiaro». Chi lo ha ascoltato, lo sa. Chi non ha potuto ma è incuriosito dalla politica e dalla storia, trova il modo di recuperare quell’esperienza. Ma un diciottenne ceco, oggi, sa chi è Havel?
«Uno degli obiettivi principali della biblioteca – risponde Zantovsky - è quello di curare e diffondere la memoria di Havel, soprattutto per i giovani che spesso sanno poco di lui e della Guerra Fredda. Tuttavia il suo lascito è ancora incredibilmente vivo, a mio avviso lo si può paragonare solo a quello del primo presidente fondatore della Repubblica cecoslovacca nel 1918, Tomáš Masaryk. Questa consapevolezza a prima vista può sfuggire poiché Havel ha avuto anche molti critici, persino quando era in vita: c’era chi gli addebitava di essere un uomo del passato, che aveva già fatto quel che doveva e non aveva più nulla da dire. Si sbagliavano e lo si capì il 18 dicembre 2011, il giorno della sua morte. Nonostante si fosse a pochi giorni dal Natale, e la gente avesse la testa da tutt’altra parte, si sollevò una grandissima ondata non organizzata, non solo per il lutto ma anche a testimoniare la gratitudine e l’orgoglio per quel che aveva rappresentato per il Paese. Vedo che questo sentimento riemerge anche in molti giovani, nelle manifestazioni. Mi sento di dire che Havel, con il suo motto “vivere nella verità”, con il suo senso di responsabilità, rimane un esempio di grande statista ma soprattutto di un uomo che ha vissuto una vita piena di senso».
Sembra paradossale, dopo una storia recente come quella vissuta dai cechi e contraddistinta da una personalità quale è Vaclav Havel, che il popolo abbia eletto un presidente filorusso, e il Paese si ritrovi nella spirale del sovranismo antiestablishment e antimigranti (come confermano anche i risultati delle ultime europee) al pari dell’Ungheria e della Polonia.
«Il presidente Zeman di per sé non è un reale problema perché la Costituzione ceca non riserva al capo dello Stato poteri rilevanti: non guida il governo, in più non è un segreto che si tratta di un uomo vecchio, malato, inacidito. Non ha la forza di incidere sulla vita pubblica. Il vero problema è l’accoppiata con il premier (l’imprenditore Andrej Babis, il “Donald Trump ceco”, ndr): i due sono accomunati dall’essere politici del potere, non della responsabilità come era Havel. Si influenzano reciprocamente in base ai loro bisogni e convenienze, e questa interazione talvolta è pericolosa, sembra andare a intaccare lo stato di diritto, l’indipendenza della giustizia, la libertà di stampa: ovvero ciò per cui abbiamo lottato trent’anni fa e sui cui non siamo disposti a cedere».
L’antidoto, sottolinea Zantovsky, rimane quello del “potere dei senza potere”, un concetto da trasmettere alle giovani generazioni: «La politica non è soltanto l’attività di ministri e deputati ma un’azione civica capillare, alla quale può partecipare chiunque abbia a cuore la res publica e voglia mettersi in gioco».
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