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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2011 alle ore 14:12.

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L’esperienza ci insegna che molte attività di vigilanza esistenti hanno senso, non solo quelle autorizzate dal Fmi, come ad esempio il requisito di riserva sui flussi oltrefrontiera, attuato con successo in Cile, Colombia e in altri paesi, o meglio ancora, quello sulle passività oltrefrontiera. Le tasse sugli afflussi possono rivestire un ruolo simile, alla pari dei periodi di minima permanenza richiesti per gli afflussi di capitale.

Ha quindi senso proibire alcune transazioni per ragioni prudenziali, in particolare per l’erogazione di prestiti in valuta estera agli agenti economici che non hanno entrate in quelle valute. In alternativa, se tali attori economici ricevono prestiti dalle istituzioni finanziarie domestiche, i controlli potrebbero rassomigliare alle recenti misure adottate in Brasile e in Corea del Sud, ossia elevati requisiti di capitale e riserva per i debiti associati.

Nel recente documento del Fmi, il Fondo propone una serie di lineeguida destinate ai diversi paesi e relative alle attività di vigilanza sui conti capitale (che chiamano capital-flow management measures o CFM, ossia misure di gestione dei flussi di capitale). Le lineeguida sottolineano come tali strumenti debbano completare, e non sostituire, le politiche macroeconomiche anticicliche. Tuttavia, fanno sembrare i CFM un intervento di ultima istanza, da utilizzare solo dopo aver tentato tutto il resto: aggiustamenti sui tassi di cambio, accumulo di riserve e politiche macroeconomiche restrittive. I CFM dovrebbero infatti rivestire un ruolo chiave nell’evitare innanzitutto un apprezzamento eccessivo dei tassi di cambio e l’accumulo di riserve.

Il Fmi preferisce che i CFM siano temporanei. Anche se ciò contrasta con un’altra raccomandazione delle lineeguida, ossia rafforzare la struttura istitutiva in modo duraturo. Una struttura istitutiva implica che i CFM rientrino in un kit di politiche permanenti attuate da un paese e che i controlli vengano rafforzati o indeboliti a seconda della fase economica in cui ci troviamo. Le misure temporanee hanno avuto un’efficacia ridotta in molti paesi.

Inoltre (e sempre in contrasto con le lineeguida), i CFM, quasi per definizione, richiedono una leggera discriminazione tra residenti e non residenti. Dopotutto, viviamo in un sistema globale in cui diversi paesi utilizzano valute diverse, il che implica che i residenti e i non residenti abbiano domande asimmetriche per gli asset emessi in queste valute.

È fondamentale che una struttura politica derivante dalle istituzioni internazionali come il Fmi preveda un chiaro meccanismo per cooperare con i paesi che si avvalgono di tali politiche. Ma non vi è traccia di tutto questo nelle lineeguida del Fmi, pur riconoscendo che la volatilità dei conti capitale sia in un certo senso una esternalità negativa inflitta ai paesi beneficiari.

In effetti, implementare le lineeguida del Fmi potrebbe implicare l’eliminazione di alcune disposizioni previste in alcuni accordi sul libero scambio (soprattutto quelli sottoscritti dagli Usa) che restringono l’uso dei controlli sui conti capitale. Fatto ancora più importante, i paesi potrebbero utilizzare strumenti simili, nell’ambito di un vero regime di vigilanza internazionale, per incrementare l’efficacia delle proprie politiche monetarie espansionistiche.

Infine, qualsiasi tipo di regolamentazione in quest’ambito dovrebbe riconoscere che la convertibilità dei conti capitale non è obbligatoria per i clienti del Fmi. Tale questione fu posta nel 1997, quando l’allora amministratore delegato del Fmi, Michel Camdessus, cercò di includere la liberalizzazione dei conti capitale nello Statuto del Fondo (Articles of Agreement). Il mancato adempimento di quell’impegno è implicitamente riconosciuto nelle lineeguida, le quali non prevedono nuovi obblighi sotto la sorveglianza del Fmi.

In altre parole, la nuova struttura del Fondo è ben accetta, ma i paesi avranno bisogno di libertà per gestire, meglio che in passato, il proprio conto capitale.

José Antonio Ocampo, ex Sotto-segretario generale Onu per gli affari economici e sociali ed ex ministro delle finanze in Colombia, è professore e membro della Committee on Global Thought presso l’Università della Columbia. Kevin Gallagher è professore di relazioni internazionali all’Università di Boston e research fellow al Global Development and Environment Institute presso l’Università Tufts. Stephany Griffith-Jones è a capo del dipartimento Financial Research of the Initiative for Policy Dialogue presso l’Università della Columbia.

Copyright: Project Syndicate, 2011.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino

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