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Questo articolo è stato pubblicato il 30 maggio 2011 alle ore 08:10.

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Cambia l'aria anche nel settore pubblico. Dopo otto anni è forse avviato al tramonto il predominio assoluto dell'in house, l'affidamento senza alcuna gara a società pubbliche (controllate al 100% dalle amministrazioni locali) delle attività economiche e dei servizi pubblici più disparati. Dagli autobus alla consulenza, dal software alla progettazione, dalla gestione dell'acqua alla realizzazione delle opere pubbliche, nessun settore collegato al comparto pubblico è rimasto fuori della schiacciante e anti-concorrenziale patologia dell'in house.

Fu introdotta da un "emendamento Buttiglione" all'articolo 14 del decreto legge 269/2003 e ha segnato un decennio che ha fatto notevoli passi indietro nel campo della concorrenza, del mercato e della crescita imprenditoriale del Paese. Già, perché il presupposto dell'in house, ammesso a piccole dosi dall'Unione europea e introdotto in Italia senza controllo e senza limiti, è proprio che l'attività sia prettamente pubblica e sia svolta come farebbe un braccio operativo della pubblica amministrazione. Straordinario moltiplicatore di poltrone pubbliche, politiche, parapolitiche, sottopolitiche. Fa dell'Italia la patria dell'Azienda di Stato, di Regione, di Comune e anche di Provincia e magari di Consorzio intercomunale.

Veniamo alla notizia. Dopo anni di crescita del numero delle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, i primi dati del 2010 fanno pensare a un'inversione di marcia. I numeri andranno poi verificati, perché la nebulosa delle società pubbliche è gigantesca e sfugge a qualunque trasparenza. Tuttavia, il segnale è forte e incoraggiante.

Da qualche anno, il governo centrale e il Parlamento avevano maturato la necessità di un'inversione. Ci aveva provato Linda Lanzillotta, vietando alle amministrazioni pubbliche di costituire società in settori di attività del libero mercato. Che senso ha una società pubblica che vende servizi informatici o progettazione? Poi si era andati avanti con i vari taglia-enti, pure loro mirati a ridimensionare la pletorica macchina pubblica. Magari senza un disegno, colpendo nel mucchio.

Da ultimo, è stato il decreto legge Ronchi-Fitto a introdurre una riforma dei servizi pubblici locali. Chiude la stagione dell'in house, mettendo a gara entro la fine del 2011 le vecchie gestioni protette. I nuovi affidamenti in house saranno molto limitati, dovranno essere giustificati con l'assenza di un'offerta di mercato e timbrati dall'Antitrust. I vecchi saranno sostituiti da concessionari privati o da società miste pubblico-privato. La gara (per scegliere il titolare del servizio o il socio privato dell'azienda pubblica) darà pubblicità e maggiore trasparenza alle scelte degli enti pubblici.

Alla luce di questa fotografia e dei nuovi numeri, si fa ancora più inquietante il referendum popolare che intende cancellare la riforma Fitto-Ronchi. Un esempio di mistificazione politica. Spacciato dai comitati referendari come una consultazione popolare «contro la privatizzazione dell'acqua», il voto del 12-13 giugno difende il predominio delle gestioni pubbliche di tutti i servizi pubblici locali. Attacca il privato anche dove non c'è per difendere lo scandalo di un paese gestito dal sottobosco politico. Non solo nel settore dell'acqua, ma anche degli altri settori come il trasporto locale o la raccolta dei rifiuti.

Il primo effetto di un eventuale esito positivo della consultazione sarà la rinascita dell'in house e una nuova stagione di aziende pubbliche a tutto campo. Nell'acqua, poi, l'esito sarà ancora più devastante perché il secondo quesito impone la cancellazione della tariffa idrica che premia il capitale investito con una remunerazione codificata. L'Italia paga già la tariffa idrica più bassa d'Europa che incentiva lo spreco e frena investimenti, impianti ambientali (depurazione) e innovazione nella qualità del servizio. Abolita quella norma, che per altro tutela il principio europeo (direttiva Ue 2000/60) e ambientalista di una tariffa full cost recovery (copertura integrale dei costi), saranno cancellate anche le gestioni pubbliche imprenditoriali più dinamiche per lasciare il posto solo ad aziende pubbliche vecchio stampo, costrette a finanziare gli investimenti con risorse pubbliche sempre meno disponibili.

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