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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2011 alle ore 06:43.

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La qualità della nostra Università ci fa invece avanzare di un posto, al 22esimo. Con una precisazione. Dal momento che la survey non è comparativa, ma è legata a fattori oggettivi del Paese, come la percentuale di iscritti, il livello del ranking delle singole università e gli investimenti effettuati, il senso di questa 22esima posizione alla fine è che «non c'è stato alcun miglioramento tangibile del nostro sistema universitario», dice Panetti.
Per il direttore generale della Luiss Guido Carli, Pierluigi Celli, il nostro Paese sconta «una bassa considerazione dei nostri sistemi formativi. Ma questa non è automatica, nè così conclamata. Siamo noi a svalutarla più di quanto non sia in realtà. Coloro che si formano negli atenei italiani hanno un backgroud che ha una qualità paragonabile a quello dei paesi che dominano la classifica. L'index però coglie una linea di tendenza e cioè il fatto che i sistemi educativi e formativi sono slabbrati. Ma anche nelle imprese i sistemi di reclutamento sono deficitari».
La valutazione qualitativa peggiora se si arriva al capitolo forza lavoro. Il punteggio si basa sul numero di ricercatori e di tecnici impiegati nell'R&d, la conoscenza delle lingue, le capacità tecniche e le qualità dei manager locali ed è peggiorativo: perdiamo due posizioni e passiamo dalla 28 alla 30. L'ambiente per lo sviluppo dei talenti invece sembra migliorato, così come l'apertura delle imprese ai talenti.
Per Celli invece il deficit più forte quando si parla di talenti arriva «dallo sfrangiamento del tessuto sociale e valoriale dove il talento potrebbe trovare più alimentazione. I percorsi di carriera dovrebbero essere meno legati all'appartenenza e alle relazioni personali e più alla solidità delle conoscenze e delle competenze». A questo, per il direttore generale della Luiss bisogna aggiungere il fatto che «ognuno ha i suoi talenti e questo è frutto di una causalità di nascita, di una lotteria genetica. La società dovrebbe sì prendersi in carico le eccellenze, ma soprattutto le medietà anche perché in qualsiasi impresa un'attenzione prevalente ai talenti può portare a una dannosa separazione del talento dall'organizzazione aziendale».
Quello che non migliora è invece l'attrattività dei talenti. Rimaniamo al 20esimo posto e gli indicatori scelti come il reddito personale disponibile e il tasso di crescita dell'occupazione non danno segnali positivi. E qui scontiamo, forse, «l'opacità dei percorsi di carriera – sostiene Celli –. Il problema è che le carriere si possono programmare fino a un certo punto perché bisogna vedere i risultati ottenuti dalle persone e poi la reazione nelle singole tappe di carriera. Se si dichiarano certi percorsi di carriera e poi non si praticano perché intervengono altri fattori allora l'organizzazione potrebbe perdere credibilità ed essere accusata di predicare bene e razzolare male».
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