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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2013 alle ore 00:32.

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La seconda idea legata all’Eurozona, avanzata dall’economista Paul de Grauwe, è che le unioni valutarie possono essere propense alle crisi di liquidità autorinforzanti, perché alcune parti vulnerabili (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia per certi aspetti) non hanno una valuta propria. Fino a quando lo scorso agosto la Banca centrale europea era subentrata per diventare la banca centrale non solo di Germania e Francia, ma anche dei Paesi periferici in difficoltà, questi ultimi erano come economie emergenti che si erano indebitate in una moneta estera e fronteggiavano brusche fughe di capitali. Queste (improvvise frenate), come le definiscono gli economisti Guillermo Calvo e Carmen Reinhart, hanno aumentato i premi sui rischi e indebolito le posizioni fiscali dei Paesi colpiti, che a loro volta hanno incrementato il rischio, e così via, creando una viziosa spirale al ribasso che caratterizza le crisi autorinforzanti.

L’analogia più appropriata è con un Paese come la Corea del Sud. Dopo il collasso di Lehman Brothers nel 2008, la Corea del Sud ha avuto bisogno di dollari, perché le aziende si erano indebitate in dollari e i risparmiatori nazionali non potevano fare molto. Di conseguenza, è scesa a compromesso con la Federal Reserve affinché garantisse che la domanda di moneta estera della Corea del Sud venisse soddisfatta.

Ovviamente, la crisi dell’euro non è stata solo una crisi di liquidità. Diversi Paesi della periferia (Grecia, Spagna e Portogallo) sono stati responsabili delle circostanze che hanno portato e accelerato la crisi, e sussistono importanti questioni di solvibilità che devono essere affrontate anche una volta superata la carenza di liquidità.

Infine, un’idea meno riconosciuta della crisi dell’euro riguarda il ruolo e l’impatto dei Paesi membri dominanti di un’unione monetaria. Stando a un’argomentazione diffusa, gli Stati Uniti, in veste di principale emittente di valuta di riserva, gode di quello che negli anni Sessanta l’allora ministro delle finanze francese Valéry Giscard d’Estaing definì privilegio esorbitante sotto forma di ridotti costi di finanziamento (un beneficio del valore stimato di 80 punti base).

Rispetto a questo supposto privilegio c’è sempre stato il rovescio della medaglia – precedentemente ignorato ma ora riconosciuto nella nostra era mercantilistica. Se gli investitori ricorrono ai sicuri asset finanziari americani, questi flussi di capitale devono mantenere il dollaro notevolmente più forte di quanto non sarebbe altrimenti, fatto che rivela un costo inequivocabile, soprattutto in un periodo di risorse scarse e capacità inutilizzata.

Nel caso della Germania, però, il privilegio esorbitante è sopraggiunto senza questo costo, unicamente grazie all’unione monetaria. La debolezza della periferia ha portato a un ritorno dei capitali verso la Germania come porto regionale sicuro, abbassando i costi di finanziamento tedeschi. Legato però a deboli economie come Grecia, Spagna e Portogallo, l’euro è stato altresì più debole di quanto non sarebbe stato il Deutschemark. In effetti, la Germania ha avuto un doppio privilegio esorbitante: ridotti costi di finanziamento e una moneta più debole – compito che una moneta non proveniente da un’unione monetaria come il dollaro americano non può assolvere.

Il futuro dell’Eurozona sarà determinato, soprattutto, dalla politica. Il suo sviluppo sinora ha cambiato per sempre e migliorato la nostra interpretazione di unioni monetarie. E questo varrà a prescindere dalla possibilità o meno che l’Eurozona raggiunga quell’unione fiscale e bancaria da cui non si può prescindere per mantenere la stabilità dell’area.
Traduzione di Simona Polverino

Arvind Subramanian è senior fellow sia al Peterson Institute for International Economics che al Center for Global Development.

Copyright: Project Syndicate, 2013.

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