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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2013 alle ore 19:16.

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L’intervento decisivo è arrivato nel giugno del 2012, quando la Corte Suprema, composta interamente dai giudici dell’era Mubarak, ha annullato i risultati delle elezioni parlamentari su basi pretestuose. L’esercito era stato chiamato per riaffermare i pieni poteri legislativi.

La successiva vittoria di Morsi nelle elezioni presidenziali ha avviato una battaglia epica rispetto al futuro del parlamento e della costituzione, dal momento che Morsi tentava di proteggere il parlamento eletto democraticamente mentre i militari lottavano per scioglierlo. Alla fine Morsi ha insistito affinché il parlamento eletto creasse un’assemblea costituzionale, che ha prodotto la bozza approvata nel referendum del dicembre 2012.

Come accade sempre nelle rivoluzioni politiche, la situazione economica egiziana è peggiorata sensibilmente nel corso di queste lotte di potere. Le rivoluzioni tendono a far fronte ai nuovi governi con continue richieste sociali (per gli aumenti salariali e una maggiore spesa sociale, ad esempio) in un’epoca di fuga di capitali, crisi finanziarie e profonde distorsioni di produzione. Nel caso dell’Egitto, l’importante settore del turismo ha registrato una profonda contrazione dopo la rivoluzione. La disoccupazione è aumentata in modo vertiginoso, la valuta si è deprezzata e i prezzi dei generi alimentari sono saliti pericolosamente.

Nulla di tutto ciò sorprende, e nulla può fare un nuovo governo senza esperienza, la fiducia dei mercati e il pieno controllo degli strumenti di potere. Storicamente, i partiti esterni hanno quindi rivestito un ruolo decisivo. I governi esteri e il Fondo monetario internazionale estenderanno le finanze vitali al nuovo governo o lo faranno naufragare e affogare in uno tsunami di svalutazione monetaria e inflazione?

In questo caso, l’Occidente sprovveduto – diviso tra la sua retorica democratica e l’antipatia nei confronti degli islamici – è uscito allo scoperto. Il risultato: ambiguità e ritardo invece che impegno e assistenza. Il Fmi ha parlato con il governo egiziano per due anni e mezzo dalla caduta di Mubarak senza concedere in prestito un centesimo, segnando negativamente il destino dell’economia egiziana e contribuendo ai disordini sociali e al recente golpe.

Dai comunicati sembra che alla fine l’Occidente abbia dato il via libera all’esercito egiziano per deporre Morsi, arrestare la leadership della Fratellanza musulmana e reprimere le file islamiche. La riluttanza del presidente americano Barack Obama a schierarsi dalla parte dei leader eletti dell’Egitto o addirittura di etichettare la loro caduta come golpe (così proteggendo il continuo flusso di fondi americani all’esercito egiziano) mostra che, con le spalle al muro, l’Occidente si è schierato dalla parte degli anti-islamici per sovvertire la democrazia. Ovviamente, come in classico stile orwelliano, l’Occidente l’ha fatto nel nome della democrazia.

Il golpe e la compiacenza (se non complicità) dell’Occidente potrebbero devastare l’Egitto. Gli islamici non sono né un gruppo politico marginale né una forza terroristica. Rappresentano un’ampia fetta della popolazione egiziana, forse la metà o più, e sono certamente la forza politica del Paese meglio organizzata. Il tentativo di reprimere la Fratellanza musulmana e negare a Morsi la presidenza con cui è stato eletto porterà con buona probabilità a massicce violenze e allo strangolamento della democrazia, malgrado l’Occidente e gli egiziani anti-islamici tentino di giustificare le proprie azioni.

A questo punto, l’atteggiamento corretto per l’Occidente sarebbe quello di chiedere all’esercito egiziano di reinsediare Morsi, offrire tempestivi aiuti finanziari per stabilizzare l’economia egiziana e sostenere un vero pluralismo, e non il genere di pluralismo che si rifugia nei golpe militari quando le elezioni producono risultati sconvenienti.

Vero pluralismo significa accettare la forza dei movimenti politici islamici nel nuovo Egitto e in altri Paesi della regione. In breve, l’Occidente finirà con tutta probabilità per diventare complice della continua spirale al ribasso che porterà l’Egitto alla violenza e al collasso economico.
Traduzione di Simona Polverino

Jeffrey D. Sachs è professore di sviluppo sostenibile, professore di politica e gestione della salute, nonché direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University. È anche consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per gli Obiettivi del Millennio.

Copyright: Project Syndicate, 2013.

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