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Questo articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2014 alle ore 17:53.
L'ultima modifica è del 15 ottobre 2014 alle ore 14:21.

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In altre parole, la Germania non è disposta a spendere i soldi dei propri contribuenti per sostenere l'Europa. D'altronde, la solida economia tedesca è ormai poco più che un ricordo. Il del paese è cresciuto di oltre il 3% nel 2010 e nel 2011 grazie a un'economia cinese ancora in forte espansione che all'epoca sosteneva la domanda di vetture e macchinari tedeschi; non appena, però, la crescita del Pil cinese ha rallentato, quella del Pil tedesco ha fatto lo stesso, scendendo al di sotto dell'1% annuo. In futuro si prevede qualche lieve miglioramento, ma l'invecchiamento della popolazione tedesca sottintende che le prospettive di crescita economica nel lungo termine saranno minime.

Mancando la Germania del dinamismo economico necessario per sostenere finanziariamente l'Europa, i suoi leader hanno preferito non correre rischi sul piano politico. I due principali partiti del paese, i democristiani e socialdemocratici, hanno evitato un dialogo pubblico sull'Europa nelle elezioni del settembre del 2013 che hanno prodotto la loro coalizione di governo.

Ancora più rivelatrice è la difesa di Schäuble del programma (che permetterebbe alla Banca centrale europea di acquistare quantità illimitate di bond dei paesi più deboli dell'eurozona). Mentre la Bundesbank tedesca si opponeva ferocemente a questo programma perché troppo incentrato sulla solvibilità dei paesi, anziché sul rischio di liquidità – dando così adito a un'unione fiscale clandestina – il governo è stato alleggerito dal fatto che la Corte costituzionale tedesca, nel valutare la legalità del programma, abbia passato la patata bollente alla Corte di giustizia europea. Dopotutto, creare una vera unione fiscale richiederebbe un forte impegno politico e un notevole lavoro di ricerca.

L'Ue è una struttura politica stimolante che cerca di rompere gli schemi dello stato-nazione del XIX secolo. Ma il progresso verso quella visione idealistica non può continuare a dipendere da un trito simbolismo. L'euro è stato il più audace di quei simboli, un costrutto di dubbio valore economico e dalle ben documentate fragilità. Adottarlo è stato un atto di arroganza economica, i cui costi sono ricaduti ben oltre i confini europei.

Oggi, i leader dell'Europa indulgono in trionfalismi, ritenendo l'attuale tregua economica una conferma dell'efficacia di strutture di governance transnazionali che invece hanno fallito. Ma la profondità e la persistenza della crisi in corso hanno portato a galla le fragilità intrinseche dell'euro, un avvertimento che le odierne tamponature sul piano tecnocratico potrebbero non reggere all’ennesimo shock.

Purtroppo, un'azione coraggiosa tesa ad affrontare queste fragilità sembra più lontana che mai. Cedere parte del controllo dei bilanci nazionali per realizzare l'integrazione fiscale appare politicamente impossibile, e parlare di modifiche al trattato, anche se a farlo è il ministro delle finanze tedesco, equivale a poco più di una vuota retorica infiorettata.

L'adozione dell'euro è stata un errore, ma ormai il danno è fatto e abbandonare precipitosamente la moneta comune non farebbe che peggiorare una situazione già difficile. Essendo gli Stati membri riluttanti a rinunciare alla propria sovranità, è quella di smetterla con la messinscena del coordinamento centralizzato e lasciare che i paesi e le banche affrontino i propri creditori, e siano da questi disciplinati. Tornare a questa organizzazione più stabile appare come l'unica via percorribile.

Traduzione di Federica Frasca

Ashoka Mody, ex capo missione del Fmi in Germania e Irlanda, è attualmente Visiting Professor di politica economica internazionale presso la Woodrow Wilson School of Public and International Affairs dell'Università di Princeton.

Copyright: Project Syndicate, 2014.

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