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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2013 alle ore 09:37.

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Le previsioni dell'Agenzia internazionale dell'energia (Aie) , secondo cui il Nord America, il maggiore cliente dell'Opec, diventerà esportatore netto di petrolio entro il 2030, potrebbe essere eccessivamente ottimistiche.

Riad non sembra impensierirsi per lo "schock da offerta" innescato dal Nord America" – così come lo ha definito il direttore generale dell'Aie, Maria van der Hoeven. Anzi il ministro saudita del petrolio, Ali al Naimi, ha bollato come "un'idea naif" l'indipendenza energetica degli Stati Uniti.

E c'è anche qualche autorevole analista, come Andy Hall, che ritiene temporanea la rivoluzione delle shale gas Made in Us . Secondo Hall l'elevato numero di piccoli pozzi – ognuno si limita a perforare solo una limitata porzione del giacimento - rischia di tradursi in un rapido declino produttivo.

La verità, forse, sta nel mezzo. Comunque l'Opec è consapevole che nel breve termine dovrà ridisegnare la geografia dei suoi clienti. Concentrandosi di più verso i Paesi asiatici in crescita.

Ma Algeria, Angola e Nigeria sono in allarme. Il 2012 si è concluso con un drammatico crollo (- 41%), delle loro esportazioni verso gli Stati Uniti.

Solo un deciso calo delle quotazioni petrolifere potrebbe contenere l'offensiva dello shale oil. Sotto i 70 dollari, mediamente, le tecniche di fratturazione idraulica del sottosuolo non sono remunerative. Ma è un problema solo sulla carta: dalla fine del 2009 i prezzi del greggio sono rimasti molto al di sopra di questa soglia. Lo conferma il rally del greggio Brent durato quattro anni, e culminato nel 2012 con una media di oltre 111 dollari al barile, la più elevata di tutti i tempi.

I Paesi dell'Opec sono prigionieri di un dilemma. Non voglio vedere il barile sotto i 100 dollari (il Brent ieri ha chiuso intorno ai 102 dollari).. Alcuni di loro non potrebbero permetterselo. In molti casi devono pagare i budget, che ogni anni si gonfiano, e gli investimenti effettuati per aumentare la capacità produttiva, L'Algeria, per esempio, avrebbe bisogno di un prezzo superiore ai 110-115 dollari al barile. Il barile a 70 dollari sarebbe un disastro per le economie "petro dipendenti" di diversi paesi Opec.

Ma non vogliono nemmeno assistere passivamente all'offensiva dello shale oil. Probabilmente oggi, il partito dei falchi, guidato da Iran e Venezuela, cercherà di portar avanti la linea di un taglio produttivo, che difficilmente verrà accolto. A loro conviene. Soffocato dalle sanzioni l'Iran è stato costretto a dimezzare le sue esportazioni. La fatiscente industria petrolifera venezuelana da tempo non riesce a riprendersi da un declino produttivo iniziato ormai da più di un decennio.

Certo non sono tempi facili. L'offerta è abbondante. E se i prezzi si sono mantenuti sugli attuali - alti - valori è perché le tensioni geopolitiche in Medio Oriente non sono venute meno. Ma i dati settimanali sulle scorte commerciali Usa sono l'ennesimo segnale di come il vento sia cambiato. Anche questa settimana gli stock sono saliti ben oltre le attese a livelli mai toccati i precedenza. Per l'American Petroleum Institute (Api) quelli di greggio sono cresciuti di 4,4 milioni di barili. Per il Dipartimento americano dell'Energia (Eia) l'aumento è stato di 3 milioni di barili. Il rapporto dell'Eia evidenzia come gli attuali 397,6 milioni di barili - un record storico - segnino una differenza di ben 12,8 milioni di barili rispetto allo stesso periodo del 2012, quando le scorte erano ritenute confortevoli. Se poi si aggiunge che sono salite sensibilmente anche le scorte di distillati (+3,1 milio di barili epr l'Api e +1,9 per l'Eia) l'impressione è che l'offerta sia più che adeguata. Sempreché le tensioni geopolitiche politiche non si trasformino in reali interruzioni della produzione.

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