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La crisi dello spread e il «baratto» banche-Tesoro

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dietro le quinte

La crisi dello spread e il «baratto» banche-Tesoro

Tutti ricordano la grande crisi dello spread, scoppiata tra il 2011 e il 2012. La fuga degli investitori dall'Italia, i rendimenti dei BoT che schizzano al 7%, il panico, la caduta del Governo Berlusconi e la nascita di quello guidato da Monti. Ma nessuno ha raccontato, fino ad ora, come il ministero dell'Economia ha gestito dietro le quinte quella grave emergenza in cui l'Italia ha sfiorato il default: attraverso una sorta di “baratto” con le banche internazionali. Da un lato loro hanno continuato a sottoscrivere titoli di Stato in asta, evitando al Paese il peggio, dall'altro il Tesoro ha rinegoziato con le stesse banche un po' di contratti derivati esponendosi a rischi e possibili perdite future a fronte di un incasso immediato. Un do ut des. Che conferma quello che ormai è un dato di fatto: con un debito pubblico da oltre 2mila miliardi, l'Italia è ostaggio della grande finanza.

Il grande baratto
Per raccontare la “controstoria” della crisi dello spread, basta interpretare le parole e i numeri dati da Maria Cannata (capo della direzione del debito pubblico al Tesoro) nell'audizione alla Camera dei deputati sul tema dei derivati. È lei stessa a raccontare che in quei giorni e mesi drammatici le banche «si trovavano pressate» a ridurre l'esposizione sull'Italia: la Penisola era considerata rischiosa e le case madri spingevano le filiali italiane a ridurre i rischi anche per adeguarsi alle nuove normative prudenziali di Basilea. Per farlo, le banche internazionali avevano due possibilità, entrambe nefaste per l'Italia. La prima era di non partecipare più alle aste di titoli di Stato: dato che le principali banche italiane ed internazionali hanno il ruolo di garantire il buon esito dei collocamenti di titoli di Stato, se i big esteri si fossero tirati indietro il Tesoro avrebbe corso il rischio di non riuscire più a vendere BoT e BTp. Insomma: questa ipotesi era l'anticamera del default. L'altra possibilità per le banche era di acquistare titoli in asta, ma di annullare il rischio-Italia comprando speciali “polizze assicurative” (i cosiddetti Cds): anche questa opzione era negativa per la Penisola, perché creava un effetto perverso sullo spread.

Che fare dunque? La soluzione è questa: vengono rinegoziati alcuni dei “vecchi” contratti derivati stipulati negli anni precedenti, in modo da ridurre i problemi alle banche estere e caricarne un po' nelle spalle dello Stato. Insomma: loro continuano a comprare BTp e BoT in asta, ma il Tesoro permette loro di diminuire l'esposizione a lunga scadenza sull'Italia in maniera “sintetica”. Con l'effetto di far calare le pressioni sui BTp. Vengono dunque realizzate due tipologie di operazioni finanziarie: da un lato vengono accorciati alcuni derivati che in passato servivano per allungare la vita media del debito italiano. Dall'altro il Tesoro vende alle banche delle particolari opzioni, chiamate «Swaption», che danno al Tesoro un beneficio immediato ma lo espongono a rischi futuri. Ebbene: è proprio dietro questi tecnicismi, incomprensibili alla maggioranza della popolazione, che si nasconde il baratto.

Vita tua, guadagno mio
L'esito di questa operazione si vede oggi nel valore di mercato (mark to market) dei derivati della Repubblica italiana, che - nel complesso - sono negativi per 42 miliardi. Solo le «Swaption» hanno ad oggi una “perdita teorica” di oltre 9 miliardi di euro, su un loro valore nominale di 19,5 miliardi. «Vendere Swaption significa fare speculazione, in quanto il rischio di dover pagare un differenziale di tasso penalizzante viene trasferito dalle banche allo Stato», spiega Nicola Benini, consulente indipendente e vicepresidente di Assofinance. Le «swaption» sono infatti delle opzioni che danno a chi le compra il diritto di accendere un derivato (Irs) in futuro a un tasso prestabilito. Vendendole alle banche, dunque, il Tesoro è come se avesse dato loro il coltello dalla parte del manico. E la ferita si vede in quei 9 miliardi di valore negativo: se in un primo momento il Tesoro ha avuto un beneficio (questo ha aiutato a ridurre gli interessi in quei giorni di fuoco), ora le perdite di questa speculazione sono teoricamente ben maggiori.

L'altra grande perdita teorica, per l'Italia, si vede proprio nei derivati «di duration», quelli che il Tesoro rinegozia con le banche: su un valore nominale di 102,9 miliardi, questi derivati hanno una valore di mercato (Mtm) negativo per 33 miliardi a fine 2014. La perdita, dicono sia Maria Cannata sia gli esperti, in questo caso è ovvia ed è conseguenza del calo dei tassi d'interesse di mercato negli ultimi anni. Nulla di strano, dunque. Ma secondo alcuni, i 33 miliardi sembrerebbero un po' troppi per essere giustificati solo dal calo dei tassi. Anche perché i derivati che servivano specificamente per coprire il Tesoro dal rischio tassi (Irs di copertura) hanno un valore positivo per 643 milioni. La domanda nasce dunque spontanea: possibile che anche nei derivati «di duration» siano stati spalmati un po' dei costi di quelle rinegoziazioni?

La sudditanza
Bene inteso: il Tesoro in quell'occasione aveva ben altri problemi. La priorità era di evitare il default dell'Italia. E su questo Via XX settembre ha avuto successo. Ma il punto è un altro: quanto accaduto dimostra come l'Italia sia ostaggio della finanza e delle grandi banche, che hanno sempre la possibilità di “staccare la spina” sui titoli di Stato e di mettere in difficoltà il Paese. Questo ha spinto in passato il Tesoro ad assumersi rischi (tra l'altro non sono neppure previsti accantonamenti per i valori negativi dei derivati), nella speranza che il futuro sia clemente.

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