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Petrolio, dalle major 738mila barili in più nel primo trimestre

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Petrolio, dalle major 738mila barili in più nel primo trimestre

Non è soltanto dell'Opec o dei produttori di shale oil la responsabilità dell'eccesso di petrolio sul mercato. Anche le major ci hanno messo lo zampino, aumentando la produzione di 738mila barili al giorno nel primo trimestre di quest'anno, proprio mentre il prezzo del barile scendeva rovinosamente ai minimi da sei anni, sotto 50 dollari al barile. La cifra emerge da un'analisi del Sole 24 Ore sui bilanci appena pubblicati da sette grandi compagnie occidentali: le europee Royal Dutch Shell, Bp, Eni, Total e Statoil e le statunitensi ExxonMobil e ConocoPhillips.

Se si considera anche il gas, la produzione è salita di 619mila barili equivalenti petrolio al giorno (boe), un risultato appannato da Shell, l'unica ad aver fatto un passo indietro con l'output (-2% a 3,166 mboeg), ma la società prevede che quest'ultimo aumenterà del 20% dall'anno prossimo grazie alla fusione da 70 miliardi di dollari con Bg Group.

Massimizzare i volumi di produzione per compensare il minor valore del greggio può rivelarsi un autogol, perché in questo modo si gettano i semi per nuovi ribassi di prezzo. Probabilmente per le major non si è trattato, se non in minima parte, di una strategia deliberata: lo sviluppo di nuovi giacimenti (in particolare di risorse convenzionali) richiede anni di lavoro e fino a pochi mesi fa nessuno aveva previsto che le condizioni del mercato potessero peggiorare fino a questo punto: nel primo trimestre di quest'anno il Brent valeva in media 55,13 $/barile, contro 107,87 $ nello stesso periodo del 2014.

La continua crescita della produzione - cui per ora non si sottraggono né le compagnie statali, né quelle private - minacciata tuttavia di far nuovamente crollare il prezzo del greggio, dopo il recente recupero. Reuters stima che l'Opec anche in aprile abbia aumentato l'output, a 31,04 mbg (+70mila bg), il massimo da novembre 2012.

Shell a parte, l'accelerazione delle attività estrattive balza agli occhi come un elemento ricorrente in questa stagione di trimestrali. L'altro fil rouge è la rivincita del modello di business integrato: come già Bp, Eni e Total, anche Exxon e Shell, che hanno presentato i conti ieri, sono riuscite ad attutire il crollo degli utili grazie alla divisione downstream.

Ben peggio è andata a Conoco, che tre anni fa ha scorporato le raffinerie dando vita a Phillips 66, e alla norvegese Statoil, attiva quasi esclusivamente nell'upstream: la prima ha chiuso il trimestre con una perdita di 222 milioni di dollari, al netto di poste straordinarie, mentre la seconda ha accusato una perdita di ben 4,7 miliardi, benché legata soprattutto alla svalutazione di asset nello shale oil americano.

Anche Exxon e Shell hanno sofferto, ma i risultati hanno superato le attese degli analisti, soprattutto nel caso del colosso Usa. I suoi utili trimestrali sono crollati del 46% a 4,94 miliardi di dollari, ma nella raffinazione - settore in cui è particolarmente forte - il profitto è più che raddoppiato (e addirittura quintuplicato fuori dagli Usa), salendo a 1,67 miliardi.
Per Shell gliutili si sono ridotti complessivamente a 3,2 miliardi di $ (-56%), con un impatto di 4,7 miliardi dovuto al crollo dei prezzi di petrolio e gas. Ma nel downstream c'è stato un balzo da 1,6 a 2,6 miliardi di $. Il direttore finanziario Simon Henry non ha escluso nuove acquisizioni dopo quella di Bg, anche se di piccolo taglio: «Non abbiamo più molti contanti, ma valuteremo tutto ciò che potrebbe interessarci».

twitter.com/SissiBellomo

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