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Blitz contro loro in Asia: il lingotto crolla ai minimi da 5 anni

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Materie prime

Blitz contro l’oro in Asia: il lingotto crolla ai minimi da 5 anni

Nessun errore, ma un attacco deliberato. Chi ha precipitato la discesa dell’oro, affondandolo sotto 1.100 dollari l’oncia, ai minimi da cinque anni, aveva un obiettivo chiaro e sapeva come raggiungerlo: ogni indizio fa pensare che il raid sia stato organizzato nei dettagli e che la mente sia in Cina, dove gli hedge funds - inesistenti fino a pochi anni fa - si sono moltiplicati diventando in alcuni casi soggetti forti e spregiudicati, capaci di influenzare i mercati finanziari a livello globale.

L’azione di ieri si è svolta in una manciata di minuti, durante i quali le quotazioni dell’oro sulle piattaforme elettroniche, che funzionano 24 ore su 24 e sette giorni su sette, sono crollate di quasi il 5% raggiungendo 1.088 dollari per la prima volta da marzo 2010: un movimento enorme e rapidissimo rispetto a quelli che di solito interessano il metallo prezioso, con cui i misteriosi autori del blitz sono riusciti a sfondare robusti supporti tecnici, aprendo la strada a probabili ulteriori ribassi. Anche se nel corso della giornata il lingotto ha parzialmente recuperato, riportandosi intorno a 1.100 $, lo scivolone ha contribuito a spingere il Bloomberg Commodity Index, uno dei più utilizzati, ai minimi da 13 anni.

Il momento dell’attacco è stato scelto con particolare attenzione. L’ora X è scattata , all’apertura dello Shanghai Gold Exchange, mentre negli Stati Uniti era ancora domenica sera, in Europa addirittura notte e in Giappone i mercati erano chiusi per una festività nazionale: condizioni ideali per trovare una bassa liquidità ed essere in grado di spostare con maggior decisione il mercato, molto simili a quelle in cui lo scorso gennaio fu il rame a crollare ai minimi dal 2009, si suppone anche in quel caso per mano di fondi speculativi cinesi .

Una prima raffica di vendite ha colpito l’oro sul Comex di New York, con 7.600 futures per consegna agosto scambiati nel giro di due minuti, per un valore nominale di 860 milioni di dollari. Quasi immediatamente a 12mila chilometri di distanza, la piattaforma dello Shanghai Gold Exchange registrava la vendita di 33 tonnellate di oro fisico, un quinto di quelle che normalmente passano di mano in un giorno. L’oro intanto crollava anche sui mercati cinesi dei derivati, innescando una serie di stop loss che potenziavano l’effetto ribassista.

Il lingotto già da tempo non gode di buona salute, tanto che ha ormai cancellato quasi metà dei rialzi che aveva accumulato in dodici anni di rally, quando le sue quotazioni salirono da circa 250 $/oz nel 1999 a un record storico di 1920,30 $ nel 2011 (nonostante il mini-rimbalzo odierno) . Nelle ultime settimane, a dispetto della sua fama di bene rifugio, l’oro ha reagito con sconcertante indifferenza al crollo della Borsa cinese e al precipitare della crisi in Grecia. Il metallo, che non offre alcun rendimento, ha progressivamente perso il favore degli investitori in vista del rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti - che mercoledì scorso la Fed ha segnalato come possibile già in settembre - e con la cavalcata del dollaro, che si è apprezzato di oltre il 20% negli ultimi 12 mesi rispetto a un paniere di valute. Al Comex i fondi hanno ridotto le posizioni nette lunghe (all’acquisto) sull’oro ai minimi dal 2006, quando la Cftc ha iniziato a pubblicare i dati. E gli Etf sono di nuovo oggetto di forti riscatti: solo venerdì il patrimonio è calato di 443,1 milioni di dollari, un record dal 2013.

La fiducia nelle possibilità di ripresa del lingotto è stata ulteriormente intaccata dalla Banca centrale cinese, che - per la prima volta da sei anni - ha alzato il velo sulle sue riserve auree: con 1.658 tonnellate oggi Pechino è al sesto posto nel mondo (dopo Usa, Germania, Fondo monetario internazionale, Italia e Francia), ma dal 2009 ha accumulato appena 604 tonnellate, meno della metà di quanto avessero stimato dagli analisti. Non solo. Poiché le riserve valutarie cinesi negli stessi anni sono cresciute a ritmi poderosi - fino a superare3mila miliardi di $ - la quota di oro nelle casse della banca centrale si è addirittura ridotta dall’1,85 all’1,65% (negli Usa l’oro costituisce oltre il 70% delle riserve). Tutto ciò nonostante la Cina sia il maggior produttore di oro al mondo e contenda all’India il primato dei consumi.

Viene dunque meno l’ipotesi che il boom di importazioni di oro degli ultimi anni servisse a rimpolpare le riserve auree. Più probabile che anche il metallo prezioso - come il rame e altre materie prime - fosse diventato un mezzo per procurarsi denaro da reinvestire, magari proprio in Borsa: il World Gold Council nel 2014 aveva stimato che addrittura mille tonnellate di oro nei tre anni precedenti potessero essere entrate in Cina solo per diventare collaterale a garanzia di crediti (si veda Il Sole 24 Ore del 16 aprile 2014).

Il recente giro di vite di Pechino contro molte pratiche di finanziamento informale, unito alla discesa dei tassi di interesse in Cina, potrebbe aver indotto a smontare molte operazioni di commodity financing. Anche così potrebbe spiegarsi il presunto attacco all’oro di ieri.

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