Finanza & Mercati

Banche americane in allarme per i debiti dello shale oil

  • Abbonati
  • Accedi
Materie prime

Banche americane in allarme per i debiti dello shale oil

I debiti accumulati dai produttori di shale oil cominciano a pesare sui bilanci delle banche americane, che stanno accantonando somme crescenti di denaro a fronte di crediti incagliati.

Non si tratta per ora di cifre elevate, capaci di compromettere seriamente la redditività degli istituti, né tanto meno è a rischio la stabilità del sistema, anche se tra i maggiori finanziatori del settore Oil & Gas ci sono colossi del calibro di JpMorgan e Wells Fargo. Il rischio maggiore lo corrono piuttosto i clienti, ossia  le compagnie petrolifere, che presto potrebbero vedersi ridurre o addirittura revocare le linee di credito. L’occasione potrebbe essere la prossima revisione semestrale delle condizioni di finanziamento, in programma a ottobre: un appuntamento al quale le banche potrebbero presentarsi con un atteggiamento molto meno tollerante rispetto ad aprile, quando un forte recupero delle quotazioni del petrolio aveva risvegliato la speranza che per il settore il peggio fosse passato.

Oggi il Wti sta di nuovo testando al ribasso la soglia dei 50 dollari al barile, con ripercussioni gravi non solo su profitti e flussi di cassa delle compagnie, ma anche sul valore delle riserve petrolifere, impegnate come collaterale a garanzia dei crediti. Le autorità di vigilanza statunitensi hanno già alzato la guardia, classificando molti di questi crediti come “substandard”, un termine utilizzato quando ci sono evidenti rischi di solvibilità (si veda Il Sole 24 Ore del 4 luglio).

Probabilmente è anche in risposta a queste pressioni che JpMorgan nel corso del secondo trimestre ha aumentato di 24o milioni di dollari gli accantonamenti a fronte di potenziali sofferenze. Di questi, ha chiarito la banca, 140 milioni sono relativi a prestiti al settore petrolifero e potrebbero ulteriormente aumentare nel corso dell’anno. «È possibile che selettivamente procederemo al downgrading di alcuni clienti», ha avvertito il direttore finanziario Marianne Lake. «Ma questo non significa che subiremo delle perdite», si è affrettato a precisare il ceo Jamie Dimon, intervenendo nella conference call.

Wells Fargo «sta ancora risolvendo la questione», ha detto il cfo John Shrewsberry, rassicurando che i problemi riguardano solo «una porzione molto contenuta del portafoglio crediti». Ma ha comunque ammesso un incremento di 460 milioni di dollari per i crediti scaduti nel secondo trimestre, quasi tutti nel settore energetico.

Più a rischio appaiono la texana Comerica - che ha accantonato 47 milioni a fronte di prestiti in sofferenza nell’Oil & Gas, contro gli 11 milioni di un anno prima - e altre banche di dimensioni minori, spesso operanti in zone degli Stati Uniti a forte produzione petrolifera. In un report diffuso lunedì Moody’s ha messo in allerta sull’elevata esposizione di Bok Financial Corp, Hancock Holding, Texas Capital Bankshares e Cullen-Frost Bankers. In confronto a queste, osserva l’agenzia di rating, il deterioramento della qualità dei crediti di JpMorgan e Well Fargo è «relativamente modesto».

I cordoni della borsa potrebbero non chiudersi del tutto. «Di certo non c’è l’intenzione di mettere nessuno spalle al muro - osserva Robert Gray, partner dello studio legale Mayer Brown - perché l’ultima cosa che le banche vogliono è ritrovarsi a gestire una compagnia petrolifera», eventualità che si verificherebbe con il pignoramento delle riserve a garanzia dei debiti. È tuttavia probabile che saranno fatte forte pressioni per ottenere un rientro anticipato: cosa che per molti produttori di shale oil potrebbe rivelarsi davvero difficile.

I loro bilanci sono sono in continuo peggioramento, anche perché le operazioni di hedging con cui avevano protetto una parte degli incassi di quest’anno - vendendo petrolio a 90 $/barile e più - stanno progressivamente scadendo. Gli altri canali di finanziamento, inoltre, sono sempre meno accessibili e sempre più costosi.

Dopo un primo trimestre record, in cui “frackers” americani hanno collocato nuove azioni per 11,5 miliardi di dollari, il ritmo delle emissioni è più che dimezzato nei tre mesi successivi: gli investitori sono rimasti scottati dal crollo dei titoli in borsa e la fiducia sta venendo meno. Ancora più difficile è continuare a finanziarsi con le obbligazioni “spazzatura”: su 235 miliardi di debito emesso dal settore negli Usa, 22 miliardi sono oggi classificabili come” distressed”, con un rendimento che supera di oltre il 10% quello dei Treasuries.

Chi può sta percorrendo strade alternative: Chesapeake Energy, il secondo produttore di shale gas americano, per la prima volta da 14 anni ha annunciato ieri che sospenderà i dividendi. Halliburton, uno dei big mondiali dei servizi petroliferi, si è rivolta a BlackRockper un finanziamento da 500 milioni. Ma il fenomeno shale ha alle spalle oltre 14mila operatori, spesso piccolissimi e fragili. Per molti di loro la resa dei conti si avvicina.

© Riproduzione riservata