Forse Godot non arriverà neppure questa volta. Forse il tanto atteso rialzo dei tassi Usa, che fino a pochi giorni fa era previsto da molti osservatori già a settembre, tarderà ancora un po'. Dopo la Bank of England, che ha di fatto rinviato il suo primo aumento del costo del denaro, ora tanti economisti stanno spostando avanti anche le lancette della prima mini-stretta monetaria della Fed Usa. Considerando che il doping monetario continuerà ad arrivare da mezzo globo, con la Bce e la Bank of Japan in prima fila, sembra proprio che il mondo non riesca a liberarsi dalla trappola dei tassi bassi e della liquidità facile. Sembra che non riesca a tornare alla normalità. Il rischio, però, è che un giorno alla normalità lo riporti bruscamente una delle tante bolle speculative che proprio la politica monetaria sta gonfiando.
Tutti hanno in realtà qualche buona ragione per non voler tornare alla normalità. Persino in Cina (quel colosso la cui economia quando rallenta cresce comunque del 7%), la Banca centrale da novembre 2014 ha effettuato ben 15 differenti mosse espansive di politica monetaria. E ora ha iniziato a operare sul cambio valutario. Del resto un Paese che ha le imprese zavorrate da un debito pari al 155% del Pil, che ha una bolla immobiliare, che ha una dinamica demografica negativa e un pericoloso scenario deflazionistico, non può permettersi di rallentare. Ma se non può farlo Pechino, non possono neppure tutti gli altri.
Per esempio i Paesi emergenti dell'Asia, anch'essi appesantiti da un debito privato enorme (pari al 130% secondo Rbs). E se la Cina “taglia” il renmimbi, le loro economie sono destinate a soffrire: calcola Ubs che la sola svalutazione del 2% della moneta cinese abbia un effetto depressivo pari a un rialzo dei tassi di 23 punti base in Malesia e Thailandia, pari a 15 in Korea, a 14 in Indonesia e a 8 in India. Questi Paesi non possono dunque stare con le mani in mano se la Cina si muove: non è un caso che proprio ieri il Vietnam sia intervenuto sui cambi per bilanciare gli effetti negativi della svalutazione cinese. E Ubs prevede tagli dei tassi in Malesia e Thailandia.
Idem per i Paesi esportatori di materie prime (a partire da Australia, Nuova Zelanda e Brasile), perché se la Cina rallenta finiscono essi stessi nei guai. Persino gli Usa potrebbero rallentare i rialzi dei tassi dopo la mossa di Pechino. Soprattutto perché la svalutazione del renmimbi ha un effetto depressivo sulle materie prime e dunque un effetto deflazionistico nel mondo intero. Morale: se l'inflazione tarda ad arrivare, nessuno sente l'esigenza di rendere meno espansiva la politica monetaria.
Questo potrebbe prolungare l'era del doping monetario globale. Con impatti importanti sui mercati finanziari. Nonostante i crolli di ieri, le Borse potrebbero dunque trovare presto in questa ennesima guerra delle banche centrali nuovo carburante per tornare a crescere: già ieri c'era chi (come Erik Nielsen di UniCredit) definiva i crolli di Borsa buone opportunità d'acquisto per le azioni europee. Anche Ubs parla di effetti positivi sui listini. E Bill Gross sostiene lo stesso per i titoli di Stato Usa. I mercati potrebbero dunque tornare presto a ballare sulla grande liquidità. Fino al giorno in cui qualcuno capirà che non possono restare per sempre così distanti dall'economia reale.
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