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La Cina fa paura anche a Wall Street che cede oltre il 3%. Europa…

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la giornata dei mercati

La Cina fa paura anche a Wall Street che cede oltre il 3%. Europa ko, Milano (2,83%) in due settimane ha perso il 9%

Lo scivolone di Wall Street chiude uno dei peggiori venerdì della recente storia finanziaria, che ha visto cedere in modo rilevante le quotazioni di azioni, obbligazioni e materie prime, in oriente, Europa e Stati Uniti. A scatenare il “sell-off” le notizie negative sull’economia cinese, che rischiano di mettere in difficoltà l’economia globale. Il Dow Jones perde il 3,11% a 16.462,69 punti, il Nasdaq cede il 3,52% a 4.706,04 punti mentre lo S&P 500 lascia sul terreno il 3,2% a 1.971 punti. Un “sell-off” che ha colpito in modo non selettivo i listini statunitensi.

Colpite anche le materie prime. A New York il petrolio Wti è calato sotto i 40 dollari al barile, per la prima volta dal 2009. Il Brent scende a 45,18 dollari al barile, ai minimi dal marzo 2009. In chiusura il Wti è risalito a quota 40,45 dollari al barile mentre il Brent ha chiuso a 45,46. Si tratta dell'ottava settimana consecutiva di ribasso dei prezzi dell'oro nero, la piu' lunga performance registrata dal 1986.

La chiusura delle Borse europee non è stata migiore: Milano, in chiusura, ha ceduto il 2,83% ma anche Londra, Parigi e Francoforte hanno registrato passivi superiori al 2%. A Piazza Affari, tornata ai livelli di inizio luglio, si salvano dai ribassi soltanto Saipem (+0,5%, con gli investitori che puntano su una ripresa del dialogo con Gazprom) e Yoox (invariato). Giù invece tutto il comparto bancario - lo spread Btp-Bund si e' allargato nuovamente vicino a 130 punti base - con Bper, Bpm e Banco Popolare in rosso di oltre il 4%. Cnh (-4,4%) sconta il taglio delle stime della concorrente americana Deere. Sul resto del listino ancora realizzi su Saras (-4,6%); giù anche Salini Impregilo (-3,6%). Sul mercato valutario l'euro si rafforza ulteriormente sul dollaro.

Si allontana il rialzo dei tassi, il dollaro perde forza
Calano le attese per un primo rialzo dei tassi di interesse a settembre e perde drasticamente di spinta il dollaro. A indebolire l'euro è lo spostamento dell'orizzonte temporale per l'inizio della manovra di stretta sul costo del denaro. Solo il 35% degli investitori vede ora un aumento dei tassi a settembre contro il 50% di qualche giorno fa mentre il 60% degli investitori ritiene più probabile un primo intervento sui tassi a dicembre.

La sindrome cinese fa sempre più paura
Una nuova flessione complessiva dell'11% in cinque sedute e mercati nuovamente a ridosso di quota 3500 punti, che secondo gli analisti rappresenta per le autorità di Pechino una linea da difendere a ogni costo. La crisi cinese è ormai esplosa in tutta la sua forza e rischia di dominare la scena internazionale a lungo anche perché i problemi non appaiono più circoscritti a livello finanziario ma anche all'economia reale, come dimostrato oggi dalla performance molto negativo del Pmi manifatturiero sceso in luglio a 47,1 punti, il livello più basso da 77 mesi.

Il problema è che l'impressionante arsenale di misure messo in campo dalle autorità cinesi a inizio luglio per contrastare quello che era stato un primo grave crollo dei mercati che avevano visto bruciare 3000 miliardi di dollari nel giro di poche sedute, non sembra aver dato i frutti di lungo periodo sperati. Dopo aver visto crollare l'indice da 5100 a 3500 punti nel giro di un mese, le autorità avevano infatti tagliato i tassi di interesse a nuovi minimi storici, annullato tutte le nuove Ipo, impedito le vendite allo scoperto e autorizzato due agenzie statali a investire massicciamente in compagnie quotate in Borsa.

A distanza di un mese, e dopo che sono state spese somme enormi e molte aziende sono ormai finite sotto il controllo statale, Pechino si ritrova sugli stessi livelli di inizio luglio e con un calo drastico della fiducia da parte degli investitori internazionali nei suoi mezzi.
Lo dimostra il ritmo con cui gli investitori stranieri stanno facendo rientrare dalla Cina i propri fondi e il trend rischia di peggiorare ulteriormente nei prossimi mesi per due ragioni: la prima è che la banca centrale cinese ha permesso una svalutazione dello yuan che riduce di fatto i profitti realizzati nella valuta locale dagli stranieri e la seconda è che quando la Fed inizierà ad alzare i tassi di interesse, il debito americano, nettamente più sicuro, tornerà ad essere maggiormente attraente.

I problemi non si limitano a questo: la mossa della Cina sulla propria moneta rischia infatti di scatenare una guerra valutaria nella zona perché tutti i paesi dell'area dipendono in larga parte dalle esportazioni.

Per le imprese occidentali, la crisi cinese comporta numerosi elementi di rischio: da una parte sono penalizzate le aziende, come quelle del lusso, che guardavano con sempre maggiore interesse al mercato locale. Dall'altra la crisi cinese si traduce in minore richiesta di commodities i cui prezzi sono in effetti in continuo calo. E per le aziende occidentali attive nella produzione e trasformazione delle materie prime, ma anche per quelle che producono macchinari, le conseguenze di lungo termine potrebbero essere molto pesanti.

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