Le valute dei paesi emergenti si avvicinano alla decima settimana in calo, il periodo più lungo dalla crisi finanziaria delle Tigri asiatiche del 1997. Una debolezza su cui incombono i timori della mossa della Federal Reserve che con l’aumento dei tassi potrebbe fare scattare consistenti deflussi di capitali.
Finora la peggiore valuta è stata il ringgit malese, la stessa che subì il crollo più vertiginoso 18 anni fa. In questa prospettiva, difficile pensare a un ritorno alla normalità nonostante la «ripresina» delle ultime sedute, mentre è più probabile che la volatilità dominerà le valute di quei paesi emergenti che hanno un forte deficit della bilancia dei pagamenti. Ancora una volta si pone il problema del rischio solvibilità per molti, non per tutti i paesi emergenti: Malesia, Indonesia, Sud Africa, Turchia e Brasile sono i più deboli, mentre Taiwan e Corea del Sud, tra i paesi avanzati dell’area asiatica, avendo una bassa esposizione del debito interno al dollaro, risultano meno sensibili ai movimenti dei tassi americani. Per molte economie e per i corporate di questi paesi oltre alle ricadute di un rallentamento della crescita, si pone il problema del finanziamento del debito in valuta estera, operazione che diventa più difficile quando quella domestica si svaluta. È stato calcolato che tra il 2009 e il 2014 con le politiche monetarie mondiali accomodanti delle banche centrali, le emissioni di debito da parte dei paesi emergenti siano raddoppiate, raggiungendo la cifra record di 2,4 mila miliardi di dollari di cui il 25% in dollari. Soltanto nell’area asiatica, secondo le stime di Rbs, il debito delle imprese in valuta estera, in prevalenza dollari, rappresenta il 36% del debito complessivo e nell’area dell’America Latina il 67 per cento. La compressione dei tassi per così lungo tempo ha generato un forte afflusso di capitali, su cui ora pende la spada di Damocle della normalizzazione della politica monetaria della Fed, come sottolineato lo stesso Fondo Monetario Internazionale: l’aumento del tassi e l’apprezzamento del dollaro può generare una forte volatilità con ricadute sulle imprese che hanno prestiti in dollari.
Ma c’è un’altra ricaduta che la politica monetaria potrebbe avere sui paesi emergenti: in uno studio pubblicato nei giorni scorsi dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, la crisi finanziaria del 2008 che ha spinto i tassi americani ai minimi storici, ha indotto i paesi emergenti ad utilizzare i dollari presi a prestito e convertirli nella valuta locale, guadagnando sul differenziale dei tassi tra i paesi con operazioni di carry trade. Speculazioni finanziare contro politiche di investimento: le cifre della Bri indicano in 9 mila miliardi i dollari circolati nei paesi emergenti, compresa la Cina, dai 6 mila miliardi stimati prima della crisi finanziaria globale, nelle forme dello shadow banking, cioè al di fuori dei circuiti bancari regolamentati. Con la normalizzazione della politica monetaria alle porte, questo rappresenta un altro rompicapo per un’area già in forte difficoltà.
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