
Erano in molti a sospettarlo. Adesso è arrivata la conferma ufficiale: in risposta al crollo dei prezzi, la produzione di petrolio negli Stati Uniti ha frenato in modo molto più brusco di quanto le statistiche non raccontassero. Tanto per cominciare, il picco di 9,7 milioni di barili al giorno - un record da oltre quarant'anni, che si presumeva raggiunto in marzo - non c’è mai stato. Dai pozzi americani sono stati estratti al massimo 9,6 mbg, nel mese di aprile, e in giugno l’output era già sceso a 9,3 mbg, un livello che porta la media del primo semestre a 9,4 mbg.
A correggere i dati - dopo l’adozione di una nuova metodologia, più precisa di quella finora utilizzata - è stata l’Energy Information Administration (Eia), che fa capo al dipartimento dell’Energia americano. Le nuove statistiche - che ridimensionano l’output per tutti i mesi di quest’anno, con tagli tra 40mila e 130mila bg - non bastano a stravolgere gli scenari in un mercato tuttora gravato da un eccesso di offerta di oltre 2 mbg. Ma le revisioni sono state abbastanza rilevanti da provocare una brusca inversione di rotta delle quotazioni del barile: il petrolio - che aveva avviato la seduta in ribasso, dopo l’eccezionale recupero di giovedì e venerdì - ha gudagnato più dell’8%, azzerando i ribassi del mese di agosto. La chiusura dei mercati britannici ha contribuito ad accentuare la volatilità e il Brent, dopo essere sceso fino a 48,25 dollari al barile, è riuscito a chiudere a 54,15 $ (+8,2%). Il Wti, dopo oscillazioni altrettanto ampie, si è invece attestato a 49,20 $ (+8,8%), ai massimi da circa un mese (oggi però i prezzi sono tornati a scendere bruscamente).
Un ulteriore impulso agli acquisti è arrivato dal riemergere di voci su un possibile intervento dell’Opec a sostegno dei prezzi. Nell’editoriale del suo ultimo bollettino mensile l’Organizzazione esprime «preoccupazione» per la continua pressione sui prezzi, che la settimana scorsa ha portato il barile ai minimi da sei anni, e ribadisce di essere «pronta a discutere con tutti gli altri produttori». L’affermazione, benché tutt’altro che inedita, ha assunto una rilevanza particolare dopo le indiscrezioni di stampa dei giorni scorsi, secondo cui Venezuela e Algeria starebbero premendo per un vertice straordinario, e dopo che ieri il Cremlino ha confermato che il presidente russo Vladimir Putin questa settimana incontrerà il suo omologo venezuelano Nicolas Maduro a Pechino, in occasione delle celebrazioni per la fine della Seconda Guerra Mondiale, per discutere «possibili azioni reciproche» mirate a stabilizzare i prezzi del petrolio.
Ad esercitare la maggiore influenza sul mercato sono stati comunque i dati sulla produzione Usa e in particolare quello relativo al mese di giugno: appena due settimane fa l’Eia aveva stimato un output in leggera crescita, a 9,54 mbg, mentre ora parla di un calo di 100mila bg, a 9,3 mbg. Il nuovo dato tra l’altro, a differenza che in passato, comprende non solo il greggio ma anche i condensati. La metodologia che il governo Usa aveva finora utilizzato era al centro di numerose critiche (si veda Il Sole 24 Ore del 2 luglio).
Le cifre, frutto di una rielaborazione di dati forniti dai singoli Stati, erano oggetto di pesanti e ripetute revisioni, che in alcuni casi rischiavano di distorcere fortemente la realtà: basti pensare che il Texas, il maggiore stato produttore negli Usa, impiegava fino a 29 mesi per fornire un dato definitivo, con un margine di errore fino al 40 per cento. Non stupisce che proprio il Texas abbia subito le maggiori revisioni grazie alla nuova metodologia, che ingloba una quota rilevante di dati forniti dalle società di produzione: l’Eia segnala di aver tagliato di 100-150mila bg le stime sul suo output. Altre revisioni rilevanti - stavolta al rialzo, tra 10mila e 50mila bg - hanno riguardato il Golfo del Messico.
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