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Petrolio, l’Opec incontra di nuovo Russia e Messico. Ma di tagli…

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il crollo del barile

Petrolio, l’Opec incontra di nuovo Russia e Messico. Ma di tagli di produzione non si parla

Qualcuno ci aveva sperato, altri forse avevano frainteso. Ma di tagli della produzione di petrolio ieri all’Opec non si è neppure parlato: l’incontro con i Paesi non Opec, che il Venezuela aveva voluto ad ogni costo organizzare, si è concluso com’era prevedibile con un buco nell’acqua.

A Vienna sono arrivati meno ospiti del previsto e gli unici ministri presenti erano il venezuelano Eulogio Del Pino e l’ecuadoriano Pedro Merizalde-Pavòn. Gli altri Paesi erano rappresentati da oscuri funzionari ministeriali - come si conviene in quello che l’Opec ha sempre definito un “incontro tecnico” - oppure hanno snobbato l’appuntamento: Norvegia, Azerbaijan e Oman erano stati invitati, ma non si è presentato nessuno.

C’erano invece la Russia, il Brasile, il Messico, la Colombia e il Kazakhstan. Ma non si è deciso nulla. O almeno, nulla che valesse la pena di annunciare al mondo: nel tardo pomeriggio di ieri, ore dopo la fine della riunione, l’Opec non aveva ancora diffuso nessuna dichiarazione, nemmeno il più scarno dei comunicati stampa. Non c’era stata una posizione ufficiale, del resto, nemmeno al termine di incontri analoghi che si erano svolti in maggio e, prima ancora, nel novembre 2014, alla vigilia dello storico vertice che segnò la svolta nelle strategie dell’Opec.

Ieri, come ha riferito il ministro Del Pino, il Venezuela ha proposto di convocare tra un mese un vertice tra capi di Stato Opec e non Opec «per discutere la stabilità del mercato». Caracas vorrebbe inoltre reintrodurre una banda di oscillazione per i prezzi del petrolio, un riferimento che l’Opec ha abbandonato da anni, suggerendo 88 $/barile come «prezzo di equilibrio», necessario per contrastare il crollo degli investimenti e un conseguente declino del 10% della produzione globale.

A Vienna nessuno sembra averlo preso sul serio, anche se nei giorni scorsi il ministro iraniano Bijan Zanganeh aveva invocato il ritorno ad un prezzo di riferimento, tra 70 e 80 $/barile. E il mercato ha ignorato del tutto la vicenda: il Wti è scivolato del 2,4% a 45,20 $/bbl, ma il maggior fattore ribassista è stato l’ulteriore forte aumento delle scorte di greggio Usa (+8 milioni di barili).

Un cambio di rotta da parte dell’Opec era d’altra parte ben difficiele da immaginare, ora che le sue strategie hanno cominciato - sia pure in ritardo - a funzionare. In pratica gli Stati Uniti, patria dello shale oil, sono tornati alla casella di partenza: l’incremento della produzione di greggio accumulato dallo scorso novembre a oggi è stato quasi competamente spazzato via. Oggi l’output Usa è sceso intorno a 9,1 milioni di barili al giorno, circa 500mila in meno rispetto al picco di giugno e promette di scendere ancora, forse addirittura più di quanto si attenda il Governo americano, che ora prevede un minimo di 8,86 mbg ad agosto 2016. La produttività per pozzo, dopo essere salita del 30% in reazione al crollo dei prezzi, da luglio ha infatti smesso di crescere nelle maggiori aree di shale del Paese, fa notare Drillinginfo. E il numero di trivelle è ai minimi dal 2010.

Resta il fatto che il malessere dei produttori Opec è sempre più palpabile. Persino l’Arabia Saudita a oltre un anno dal crollo dei prezzi del greggio sta accusando contraccolpi: il Fondo monetario internazionale ieri ha avvertito che in meno di 5 anni le sue finanze rischiano di essere prosciugate se il Governo non tira drasticamente la cinghia. Kuwait, Qatar edEmirati arabi uniti hanno ossigeno per i prossimi vent’anni almeno. Ma nell’insieme i Paesi del Golfo Persico hanno perso 36 miliardi di $ di entrate e avranno bilanci in deficit del 13% quest’anno.

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