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la storia

Addio a Isidoro Albertini, un Signore di Piazza Affari. L’intervista al Sole

Isidoro Albertini (Imagoeconomica)
Isidoro Albertini (Imagoeconomica)

Se ne è andato un Signore di Piazza Affari. Isidoro Albertini avrebbe compiuto 96 anni tra pochi giorni. Nato il 19 dicembre 1919 a Como da una famiglia di imprenditori – l'azienda di famiglia confezionava cappelli fin dal 1817 – inizierà a lavorare in Borsa alla soglia dei 48 anni, diventando però in breve, come agente di cambio, un punto di riferimento anche per la finanza internazionale e non solo perché era tra i pochi sul mercato italiano a padroneggiare l'inglese. Da qualche tempo non andava più in ufficio, come faceva anche dopo aver lasciato la guida operativa di Albertini-Syz al figlio Alberto. Cominciavano a mancargli le forze e per chi come lui aveva mantenuto fino alla fine una lucidità di mente non comune questo era forse il più grande cruccio. Isidoro Albertini si è spento sabato sera nella sua casa di Como, esponente della vecchia borghesia lombarda che negli anni dei lupi di Wall Street additava invano l'ingordigia come causa di tutti i mali della finanza. L'intervista pubblicata da Il Sole 24 Ore il 22 febbraio 2009 – che di seguito riproponiamo – ripercorre in sintesi la sua vita professionale, con le sue stesse parole e i suoi ricordi: una testimonianza “autentica”.

«L'ingordigia origine della crisi» intervista a Isidoro Albertini sul Sole 24 Ore del 22 febbraio 2009 a cura di Antonella Olivieri

«Bei tempi quando si frequentava la Borsa. Era un mondo vivo: era lì che si tenevano i contatti, ci si incontrava, si scambiavano opinioni. Oggi che si parla attraverso i computer, è tutta un'altra cosa». Isidoro Albertini quest'anno compirà novant'anni, ma come tutte le mattine da più di mezzo secolo è alla sua scrivania. Attento come sempre a quanto succede sul mercato, anche se da tempo ha lasciato l'operatività ai “giovani”. Oggi ricopre la carica di presidente di Albertini-Syz, naturale evoluzione dello studio dell'agente di cambio che forse più di altri ha segnato la storia di Piazza Affari.
Il Wall Street Journal e il Financial Times sul tavolo non sono un vezzo, perchè Isidoro Albertini era uno dei pochi che sul mercato del boom economico sapeva parlare la lingua degli affari, quando ancora sui libri di scuola si studiava quasi esclusivamente il francese. Un idioma, l'inglese, che sarà il filo conduttore della sua lunga avventura a Piazza Affari. «In Borsa – racconta – ci sono finito quasi per caso. Quando Giambattista Foglia, che come me militava nel Partito d'azione, mi propose di andare a lavorare con lui nel suo studio d'agente di cambio. L'attività della mia famiglia d'origine era distante mille miglia dalla finanza. Dal 1817 confezionava cappelli e per produrre i feltri aveva aperto uno stabilimento in Inghilterra (è lì che ho imparato l'inglese). Ma negli anni '50 l'azienda fu costretta a chiudere, perchè i cappelli in Italia non li portava più nessuno». Così nel '57 Isidoro Albertini inizia a lavorare in Borsa, diventando agente di cambio dieci anni dopo, a quasi 48 anni, e rilevando infine, nel '72, lo studio Foglia.
«Avrei dovuto tenere un diario, perchè scrivere è sempre stata la mia passione – confessa – Non l'ho fatto e me ne rammarico, perchè non ho la memoria di Renato Cantoni, che ci vedeva poco e perciò teneva tutto a mente, nè quella di Emilio Moar, che era un vero archivio vivente». Ma, se i particolari sbiadiscono, l'esperienza di una vita non si dimentica. E sul filo dei ricordi, Albertini ritorna ai tempi in cui, mentre a Milano gli agenti di cambio si limitavano a negoziare per conto delle banche italiane, lui, sfruttando la conoscenza dell'inglese, cercava di alzare lo sguardo oltreconfine. «Grazie alla conoscenza della lingua – ricorda il decano di Piazza Affari – andavo alle conferenze in giro per il mondo e questo mi consentiva di spiegare l'Italia all'estero».
Una posizione lungimirante perchè, nel '68, quando si trattò di lanciare il primo fondo in Italia, fu lui il naturale candidato a gestirlo. Il fondo, di diritto lussemburghese, si chiamava Fonditalia e per statuto doveva investire nella Penisola la metà del suo portafoglio. Era uno dei tanti prodotti partoriti dall'inizio degli anni '60 da Investors Overseas Services (Ios), una società d'investimento creata da Bernard Cornfeld, imprenditore americano di origine turca, il quale, negli anni della “guerra fredda”, ebbe l'intuizione di cogliere la domanda latente di prodotti di risparmio made in Usa da parte degli espatriati, in particolare i militari di stanza in Europa. L'avventura finì male per lo Ios che, travolto da uno scandalo finanziario, fu costretto a chiudere i battenti negli anni '70. Ma gli incontri tra Beniamino Andreatta e il Governatore di allora della Banca d'Italia, Guido Carli, permisero di salvare Fonditalia. Isolandolo dalle vicende dello Ios, con l'intervento dell'Imi di Giorgio Cappon che rilevò il controllo di Fideuram, la rete che distribuiva il fondo, e, successivamente, la società di gestione.
Fatto sta che per lo studio Albertini la proiezione internazionale divenne una componente sempre più importante della sua attività, ricevendo un impulso decisivo dai rapporti d'affari con il finanziere George Soros. Tramite Albertini, Soros realizzò infatti il suo primo investimento in Italia: un pacchetto consistente di Olivetti. «Intercettammo il pacchetto da alcuni azionisti minori che volevano vendere – ricorda Albertini – e una delle controparti fu appunto Soros, convinto che, pur nelle difficoltà in cui si trovava la società (erano i tempi della prima “crisi” di Ivrea), Olivetti aveva grandi potenzialità di recupero. In effetti fu così e Soros riuscì a realizzare un buon guadagno sull'investimento». L'idea era stata del finanziere che già allora amava scommettere su situazioni a rischio, ma suscettibili di miglioramento, e ai tempi Olivetti era una delle poche realtà industriali italiane che fosse conosciuta in tutto il mondo.
Dall'estero arrivò anche lo stimolo ad ammodernare il mercato e a riscriverne le regole. A metà degli anni '80 il passaggio-chiave fu la legge istitutiva dei fondi comuni di diritto italiano che ebbe come grande sponsor Andreatta, trovando alleati preziosi in Giuliano Graziosi ed Enzo Berlanda. «Una perdita prematura quella di Andreatta, una sciagura per l'Italia. Era un personaggio di rara intelligenza, sono sicuro che con lui certi errori si sarebbero evitati», si lascia andare Albertini, che aveva una grande stima del politico democristiano pur senza essere mai stato della stessa parrocchia («come idee mi sento più vicino a Carlo Azeglio Ciampi», dice).
Ma, insomma, erano anni di grandi cambiamenti che, per quanto riguarda la Borsa, furono vissuti in prima linea dal gruppo di punta degli agenti di cambio: con Isidoro Albertini c'erano Urbano Aletti, Ettore Fumagalli, Leonida Gaudenzi e Attilio Ventura. Un processo che, nel '92, sfociò nella nascita delle Sim: segnò la fine di un'epoca in Piazza Affari e costituì la premessa per una nuova era. Fine delle grida e via libera ai computer in un processo, inarrestabile, di globalizzazione che porterà Milano nell'orbita della City londinese. «Un'idea che non mi è mai piaciuta – ammette il decano di Piazza Affari – Mi spiace perchè Milano era una Borsa piccola, ma innovatrice ed era stata gestita bene. Ha finito per soccombere davanti a chi era molto più forte, come era successo alle Borse locali di Trieste o Genova all'affermarsi di un'unica piazza nazionale».
Un'era, dunque, quella della globalizzazione dei mercati, che per oltre tre lustri ha vissuto nell'esaltazione del mito americano. «Solo ora – ammette con rammarico Albertini – ci accorgiamo che la decadenza è totale anche lì». Come è potuto succedere? Albertini non ha dubbi: «L'ingordigia è alla base di tutto, una spinta che alla fine ha rotto gli argini». Provocando lo sfracello della finanza che è sotto gli occhi di tutti. «Soros fa risalire l'inizio dei guai all'immediato dopoguerra. Io sono più propenso a pensare che l'errore sia stato piuttosto quello di abbandonare la separazione tra banche d'affari e banche commerciali che era stata introdotta, non a caso dopo il '29, con il Glass Steagall act. Queste banche universali erano diventate uno strumento potentissimo, con rilevanza anche politica».
Ma la droga che ha alimentato la bolla è stata «l'immensa liquidità che ha plagiato i mercati». Ogni volta che il sistema entrava in crisi si iniettava un po' di liquidità, che alla fine, come una droga, ha provocato assuefazione. Nel 2001 la prima potente dose da parte della Fed di Alan Greenspan. «Qualcuno pensava che forse stava esagerando, ma nessuno si augurava che chiudesse i rubinetti, perchè tutti avevano di che guadagnare dalla situazione – sottolinea – Le banche, spinte dalla necessità di impiegare la liquidità, hanno fatto soldi con nuovi strumenti che, col senno di poi, si sono rivelati dannosi. Le famiglie con la ricchezza finanziaria sostenevano i consumi. E gli Usa si indebitavano con tutto il resto del mondo, creando uno squilibrio mai corretto».
La bolla ha cominciato a spostarsi come una nube tossica. Dalle azioni agli immobili. «Per aggiudicarsi i bonus, hanno venduto subprime, anche in Italia, persino a Comuni da 30mila abitanti». Poi si è arrivati alle materie prime, partendo dal petrolio. «In pochi mesi le quotazioni del greggio sono arrivate a 150 dollari al barile, per poi piombare a 35. Segno che qualcosa non funziona. Il petrolio è una risorsa scarsa e qualche tensione sui prezzi è da mettere in conto, ma non con oscillazioni di tale ampiezza». Quindi la bolla si è estesa ai succedanei verdi, come la colza, persino il grano. «Una bolla questa che è scoppiata rapidamente, con conseguenze però ancora tutte da valutare». Sulla Russia, per esempio, dove i grandi oligarchi che hanno il controllo di settori chiave si sono trovati in difficoltà, mentre il rublo è finito sotto pressione.
«Ho vissuto tante crisi di Borsa, Sindona, l'Ambrosiano, Gardini. All'origine c'era sempre qualcuno che cercava di investire a debito. Ogni volta un passo più grande fino ad arrivare alla crisi planetaria, che diventa difficile da controllare: mai visto nulla del genere».
Albertini punta il dito contro le grandi banche d'affari Usa, principali responsabili della distruzione del sistema. Per riportare sotto il controllo della Fed le banche d'affari si è trovato l'espediente di farle comprare dalle banche commerciali, col rischio di indebolire anche queste. Ma l'errore più grosso è stato lasciar fallire Lehman, «creando le premesse per l'ingestibilità del dopo». In Europa si è finito per nazionalizzare alcune banche, dopotutto «un modo per uscire dai guai se non ci sono alternative». In Italia non ci sono le condizioni per un ritorno allo Stato, «ma c'è il rischio che possano ricadere sulle banche i problemi degli altri». La bad bank può essere una soluzione per dare sollievo al sistema? «È problematico. La prima questione è a che prezzo comprare i titoli “tossici” in modo da non far fallire la banca che li ha in portafoglio e non procurare perdite allo Stato».
La crisi comunque non è più solo una crisi della finanza. Nell'economia reale, la speranza era il decoupling: fino a un certo punto si pensava che le economie emergenti, Cina e India, avrebbero fatto da contrappeso. «E invece no, non è andata così. Resta l'enormità di capitali cinesi investiti in titoli di Stato americani. Come si farà a mettere a posto tutto, quando il Tesoro Usa sarà obbligato a emettere carta a ripetizione per finanziare i salvataggi?». Per almeno uno-due anni il mercato sarà inondato da emissioni sovrane, e non solo degli Usa. Con effetti perversi. «Per aiutare l'economia reale i tassi devono scendere – osserva Albertini – ma per collocare i titoli obbligazionari i Governi devono pagare, altrimenti le aste vanno deserte».
Così la politica monetaria ormai è diventata un'arma spuntata nelle mani delle Banche centrali. «Occorre confidare nelle politiche fiscali, ma noi abbiamo il problema del debito pubblico. Abbiamo davanti un periodo veramente difficile».
Per i mercati il “difficile” è l'imprevedibilità degli eventi che possono turbare anche un minimo di equilibrio. Una situazione che rischia di travolgere anche i “titoli buoni”. «È vero che in questo momento il rapporto prezzo/utili è basso rispetto al passato, ma il problema è che nessuno può dire con ragionevole certezza quali saranno gli utili futuri». Troppe incognite: «Mi domando come sia possibile fare previsioni industriali». Le aziende che esportano hanno nei cambi un'incognita in più. Per esempio l'imprevedibile rimonta del biglietto verde è stata spinta dal rientro dei debiti di chi si era finanziato in dollari.
E, quando sono così erratici, i mercati non riescono ad esprimere indicazioni significative, «ma si limitano a riflettere la psicologia prevalente che è di paura, di timore del disastro imminente». «Però, grazie a Dio – sottolinea Albertini – i mercati ci sono ancora».
Finchè c'è mercato, c'è speranza, verrebbe da dire, nonostante le dure prove a cui è stato sottoposto. Non ultimo lo scandalo Madoff. «Una cosa pazzesca. Perchè ha coinvolto non sprovveduti, ma grossi operatori che non hanno visto o non hanno voluto vedere». Probabilmente di mezzo c'era un meccanismo di retrocessione di commissioni che ha contribuito ad appannare le lenti. «Ma quello che tutti vedevano bene è che il banchetto continuava e nessuno aveva interesse a interrompere la festa».
E ora come se ne esce? Una domanda che non ha ancora trovato una risposta. «In un modo o nell'altro se ne uscirà, ma certamente con un enorme prosciugamento della ricchezza mondiale». Che dire? Speriamo si sbagli.

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