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Perché le Borse hanno perso il 10% in 10 giorni e la bolla dei titoli…

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Perché le Borse hanno perso il 10% in 10 giorni e la bolla dei titoli ad alto rendimento

I mercati finanziari sono lunatici, cinici e imprevedibili. Insomma, hanno un carattere non troppo semplice da gestire. C’è chi sostiene che alla lunga siano perfetti perché tendono a incorporare ogni giorno il nuovo flusso di notizie e a giocare d’anticipo. E sarebbe proprio per questo vezzo di giocare d’anticipo che sarebbero così volatili. Il tutto amplificato dal fatto che ormai il 65% degli scambi finanziari viene eseguito da robot che, quando l’algoritmo a cui rispondono non è tarato alla perfezione, rischiano di creare panico dal nulla (flash crash).

Nel 2015 che si avvia a conclusione i mercati ci hanno dato un chiaro esempio del loro profilo psicologico schizofrenico. Le Borse europee hanno corso tanto fino al 9 aprile (quando Piazza Affari guadagnava il 26% da inizio anno) per poi arrivare ad azzerare quasi i guadagni a fine agosto (dopo che la Cina ha svalutato a sopresa lo yuan). E ora, dopo un ottobre euforico (+10%) siamo ritornati punto e a capo. Sono bastati 10 giorni di dicembre per archiviare un ribasso del 10%, ribasso che ha spinto l’indice Eurostoxx 50 ad annullare i guadagni da inizio anno.

Siamo entrati in una sorta di paradosso: nell’anno del primo quantitative easing della storia dell’Eurozona (che solitamente produce un effetto positivo sull’azionario di zona) per un investitore europeo si sta rivelando più vantaggioso aver investito a Wall Street la cui performance (calcolata in euro) è oggi (+7%) superiore rispetto alla media delle Borse europee. Questo nonostante Wall Street stia da tempo preparandosi e facendo i conti con il primo rialzo - dal 2006 a questa parte - dei tassi negli Usa (verrà, con l’85% delle probabilità, annunciato domani sera alle 20).

Questa mattina le Borse europee rimbalzano recuperando il 2%. Al momento si tratta di un rimbalzo tecnico da ipervenduto ma chissà. Dipenderà dal nuovo flusso di notizie che arriverà nelle prossime ore e di conseguenza da come questo sarà in grado di modificare l’attuale “visione” da qui a 8-10 mesi sulla base della quale si riflettono le attuali quotazioni.

C’è da dire che il flusso di notizie delle ultime settimane è stato prevalentemente negativo e questo spiega il -10% in 10 giorni: prima ci si è messa la Bce che il 3 dicembre ha annunciato solo un “mini Qe2” e non un piano di espansione robusto riflesso nelle aspettative dei mercati. Poi si è aggiunta la Cina che ha svalutato lo yuan un’altra volta cambiando un po’ le regole del gioco. Pechino vuole liberarsi del vincolo del cambio con il dollaro (peg), che in questi anni le ha impedito di svalutare permettendo però di mantenere un equilibro nei rapporti con Washington. Ma non finisce qui: l’Opec (i principali Paesi produttori di petrolio) ha deciso di non diminuire la produzione (nonostante il calo della domanda globale). Se l’offerta supera la domanda cosa può fare il prezzo di quel bene? Scendere. E così il petrolio ha perso il 14% in una settimana scivolando a 35 dollari al barile, livelli che non si vedevano dal 2009.

Nella catena degli eventi che ogni giorno i mercati finanziari cercano di interpretare, scontare e prevedere, a questo punto si va ad aggiungere un altro elemento. I livelli di default delle società statunitensi che operano nel settore energetico sta crescendo. Ce lo dice l’andamento delle obbligazioni “high yield” statunitensi. Come rivela l’agenzia di rating Fitch, a dicembre i default nel settore hanno già superato i 5,5 miliardi di dollari portando il tasso di default dei bond high yield (cioè ad alto rendimento e quindi a basso rating, la maggior parte “CCC”, cioè classificabili come titoli spazzatura) al 3,3% rispetto a una media del 3% di novembre.

Più nel particolare, il tasso di default dei titoli delle società del settore oil è salito al 7% e secondo Fitch salirà all’11% nel 2016. Questo perché all’orizzonte non si prevede un recupero del prezzo del petrolio rispetto ai livelli attuali. I bond high yield del settore energetico e minerario negli Usa con un rating non superiore a “CCC” valgono quasi 100 miliardi di dollari (84) e rappresentano il 16% del mercato degli high yield statunitensi. I prezzi di queste obbligazioni continuano a scendere (in media siamo sotto gli 80 centesimi) così lo spread rispetto all’andamento dei titoli di Stato statunitensi ha raggiunto i 1.600 punti, il livello più alto dall’estate del 2009.

Sui mercati nei prossimi mesi rischia quindi di pesare anche il fardello della bolla degli high yield. Anche perché nel frattempo Wall Street ha reagito con relativa tranquillità, quasi snobbando questo rischio. Statisticamente però quando lo spread tra bond ad alto rendimento e titoli di Stato americani aumenta, non è una bella notizia per le Borse. Perché questo è considerato un segnale anticipatore di nuovi fallimenti e quindi di una frenata dell’economia. Il tutto mentre la Federal Reserve si prepara ad alzare i tassi proprio perché le cose stanno andando meglio e paradossalmente, se domani non li alzasse, i mercati reagirebbero molto male.

E quindi per i robot (che ormai decidono a maggioranza assoluta che prezzi devono avere le varie asset class finanziarie che poi finiscono nei portafogli di tutti i risparmiatori) non sarà così semplice fare i dovuti calcoli nei prossimi mesi.

twitter.com/vitolops

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