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Negli Usa è boom di occupati mentre Wall Street archivia la sua…

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la «locomotiva» americana

Negli Usa è boom di occupati mentre Wall Street archivia la sua settimana peggiore

NEW YORK - Che succede in questi mercati mondiali? Possibile conciliare un risultato ottimo per l'economia con la prima settimana dell'anno peggiore per la storia della Borsa americana? Possibile che neppure un dato straordinario come quello di ieri sull'occupazione, quasi 300.000 nuovi occupati in dicembre e un tasso di disoccupazione per il terzo mese consecutivo al 5% – testimoni entrambi di solidità - possa scrollarci il nervosismo di dosso? Possibile, è successo a Wall Street: dopo una partenza al rialzo grazie al dato forte sull'occupazione l'indice Dow Jones è passato da un future che puntava a un aumento dell'1,8% alle 8,30 del mattino a un apertura in positivo per un + 0,7%, a un inversione fino a un meno 0,7% nel primo pomeriggio per poi chiudere con una perdita dell'1,02 per cento. Ma il dato che preoccupa è quello settimanale: complessivamente al New York Stock Exchange sono stati bruciati 1.079 punti per l'indice Dow Jones, una caduta percentuale addirittura del 6%, che ha appunto consacrato questa prima settimana del 2016 come la peggiore prima settimana dell'anno di tutti i tempi.

Ma la solidità della crescita Usa resta. Restano i nuovi occupati e pur alla luce delle turbolenze quasi strutturali in arrivo dalla Cina, può l'America essere un'àncora di stabilità per l'economia e per i mercati globali? La risposta, alla luce del dato di ieri sulla disoccupazione e in generale dei fondamentali è sì. Ma a fronte dell'economia reale c'è purtroppo un'economia finanziaria fragile, pervasa dalla percezione di una bolla di liquidità che ha lanciato molte corse “gonfiate” su molti mercati borsistici. È dunque su questo equilibrio difficile tra mercati finanziari e dati economici che occorre giocare l'analisi della situazione guardando in avanti. Con una provocazione: non ci troviamo d'accordo con George Soros, quando ieri ha detto di vedere molte similitudini fra le dinamiche dei nostri giorni e quelle del 2008.

Vediamo perchè a partire dall'economia reale americana e dal suo ruolo di ancora possibile per questi momenti di agitazione e incertezza globali. Non c'è dubbio che questi 292mila nuovi occupati, con un tasso di disoccupazione al 5% per il terzo mese consecutivo, ci hanno dato uno spiraglio di sicurezza nel quadro caotico con cui abbiamo aperto l'anno sia sul piano geopolitico - pensiamo a Iran/Arabia Saudita o alla sfida nordcoreana - che su quello economico.

Martedì, quando parlerà per l'ultima volta agli americani per il discorso sullo Stato dell'Unione, Barack Obama rivendicherà il merito di aver traghettato l'America dal rischio di una depressione a uno dei periodi di crescita più lunghi che si ricordino. La prossima primavera, infatti, l'America compirà il suo settimo anno di crescita dopo la crisi del 2007/2009. Ha creato circa 10 milioni di nuovi posti, quasi un milione solo nell'ultimo trimestre. Certo, non abbiamo avuto quei tassi di crescita strabilianti del 4-5% all'anno che si sono registrati in altre epoche, ma come continua a ripeterci la Federal Reserve da quando ha iniziato la stretta, il 16 dicembre scorso, il capitolo “crisi 2007/2009” è stato archiviato definitivamente. E allora qualifichiamo il nostro «sì» alla domanda sul ruolo di «àncora» che l'America può svolgere in un contesto di fragilità globale per le difficoltà apparenti della seconda più grande economia al mondo, quella cinese.

Alcuni economisti si affidano alle carte tecniche e dopo sette anni di crescita continua cominciano a parlare di rischio recessione anche in America. La Cina e la fragilità dei mercati finanziari diventerebbero solo un catalizzatore di una realtà inevitabile e già scritta, dopo i 7 anni biblici di crescita continua. Possibile? Guardando ai fondamentali, piuttosto che agli elementi tecnici, la risposta è no. L'economia americana sta crescendo e continuerà a crescere nel contesto di un suo ciclo diciamo morbido, meno aggressivo nel breve ma più spalmato nel tempo. È vero però che ci sono delle sacche recessive molto mirate, ad esempio per il settore manifatturiero o per quello energetico e minerario. Ma è difficile immaginare che la combinazione di quattro fattori che identifichiamo come «deboli», oggi ben presenti nell'economia, possa – in mancanza di una continuità della crisi finanziaria - rallentare il locomotore americano.

I fattori sono: 1) debolezza anzi recessione, come dicevo poco sopra, per i settori manifatturiero ed energetico Usa. Il manifatturiero perde colpi per una caduta della competitività del dollaro, ma soffre ovviamente dei mancati acquisti attesi in arrivo dalla Cina; per l'energetico i prezzi del greggio sono precipitati e lo stesso vale per il prezzo del carbone; 2) c'è un effetto moltiplicatore della crisi cinese che impatterà su altre economie internazionali e di rimando su quella americana; 3) il dollaro forte continuerà a rafforzarsi e penalizzerà le esportazioni americane, un comparto dell'economia che non è mai decollato fino in fondo, la cui caduta potrebbe togliere punti base anche importanti al Pil; 4) le ultime rilevazioni mostrano un'inflazione “core” più forte di quella non depurata da prezzi alimentari ed energetici. Questo, mi ha detto ad esempio Carie Lehay di Decision Economics, potrebbe accelerare la politica restrittiva della Fed.

Ciascuno dei punti elencati ha una sua validità per giustificare preoccupazioni che abbiamo visto in Borsa in America sia martedì che, soprattutto, ieri. I quattro fattori hanno avuto un impatto sulle contrattazioni e alla fine hanno prevalso sul dato importante per la giornata, quello sull'occupazione. Ma ora chiediamoci, sono preoccupazioni legittime? Solo in parte. La crisi del settore manifatturiero e di quello energetico ha solo un impatto parziale sull'economia. Il settore minerario rappresenta oggi i 6/10 dell'1% per l'economia, il manifatturiero circa l'8,5 per cento. Quel che conta è la domanda al consumo che resta forte soprattutto con un tasso di disoccupazione come quello di ieri e che rappresenta ormai quasi il 70% dell'economia. Non saranno dunque quelle due sacche di debolezza a frenare una crescita che per l'ultimo trimestre è stimata fra 1,5% e 2% e per il primo trimestre di quest'anno dovrebbe viaggiare secondo una media dei pronostici fra il 2,7 e il 3 per cento. Vero, il fattore Cina toccherà tutte le economie mondiali. E visto che per le aziende Usa il 47% del fatturato avviene al di fuori dei confini, c'è da considerare un peggioramento possibile di fatturato e profitti. Ci sarà anche, come abbiamo detto poco sopra, un impatto anche per il dollaro forte. Ma, di nuovo, dal punto di vista dei fondamentali questo non dovrebbe danneggiare più di tanto. Dall'equazione inoltre si esclude il fattore inverno. Tuttavia non possiamo non aggiungere al caos generale un rischio “freddo”. Soprattutto se ricordiamo quello che è successo sia l'anno scorso che l'anno prima: il primo trimestre andò malissimo per colpa del gelo che paralizzò il traffico su strada, produzione e nell'insieme tutt l'economia .

Arriviamo al fattore Fed/inflazione. È vero che il tasso “core” è superiore al tasso generale ma per la Fed il core (il tasso centrale che esclude prezzi alimentari o energetici e che viaggia già intorno all'1,2%) non è il tasso di riferimento e dunque agirà in base all'andamento del tasso generale. Questo vuol dire che non ci saranno più di quattro aumenti quest'anno, e forse non saranno più di due con attese per un aumento complessivo per l'anno fra lo 0,5% e l'1%, sempre molto poco per preoccupare.

Siamo dunque al sicuro assoluto? No ovviamente. I rischi esterni, anche sul fronte geopolitico oltre che su quello cinese, ci sono. Ma dal punto di vista della solidità, l'àncora americana potrà essere per qualche tempo un'ottima garanzia di ormeggio contro le acque agitate che ci aspettano dopo questa prima settimana da dimenticare del 2016. Sempre che, invece dei nervi saldi, invece dall'analisi dei fondamentali, prevalga sull'economia reale un'altra crisi finanziaria. L'augurio è che ci sia un fine settimana per riflettere, per rendersi conto che - come ci ha detto uno degli americani che meglio conosce la Cina e l'economia cinese – la correzione di Borsa a Pechino sarà temporanea come lo è stata in agosto. E forse, più semplicemente, dovremo abituarci alla volatilità. Quando la seconda economia mondiale, che presto sarà la prima, cerca un atterraggio morbido qualche contraccolpo va messo nel conto, anche se l'attuale prima economia mondiale, quella americana, rappresenta, razionalmente parlando, ancora un'àncora per la stabilità.

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