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Cina, super-dollaro e debito monstre, ecco la tenaglia che rischia…

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IL PERICOLO CONTAGIO

Cina, super-dollaro e debito monstre, ecco la tenaglia che rischia di strozzare i Paesi emergenti

Il 2015 è stato un anno di svolta per i mercati finanziari. Un anno segnato dall'attesa per il primo rialzo dei tassi di interesse Usa da 10 anni a questa parte deciso al vertice Fed di dicembre. Così come avvenuto due anni fa in occasione del cosiddetto “tapering” (la graduale riduzione degli stimoli monetari della Fed) la principale vittima di questo cambio di rotta sono stati i mercati emergenti. Come accaduto nel 2013 anche nell'anno appena concluso le economie in via di sviluppo hanno subìto una pesante fuga di capitali.

Scorrere le performance 2015 delle principali valute emergenti nel cambio con il dollaro è come leggere un bollettino di guerra: il real brasiliano si è deprezzato del 32,9%, il rublo russo ha perso il 15%, la lira turca il 20%, il rand sudafricano il 25 per cento. Merito in parte del dollaro che si è apprezzato di quasi il 5% rispetto alle sue principali controparti in vista del rialzo dei tassi Usa.

Ma anche colpa del rallentamento dell'ecomomia cinese ed del correlato crollo del mercato delle materie prime (l'indice Goldman Sachs Commodity ha perso il 34,13%) che ha provocato una frenata (se non una recessione) in molti Paesi. Soprattutto quelli in cui l'interscambio commerciale con la Cina è maggiore (Brasile su tutti). Secondo una stima dell'Institute of International Finance per la prima volta dal 1988 i capitali in uscita dalle economie in via di sviluppo hanno superato quelli in entrata. Stando alle previsioni dell'associazione il 2015 si chiuderà con un deflusso netto da 548 miliardi di dollari.

Dopo una simile performance c'è quindi la possibilità che gli ultrasvalutati mercati emergenti possano rivelarsi un'opportunità interessante nel nuovo anno? È possibile, così come è anche vero che i Paesi in via di sviluppo non sono tutti uguali e che un'attenta selezione può rivelarsi la chiave per un buon affare. È comunque una scelta da ponderare con molta attenzione. Il quadro all'orizzonte resta tutt'altro che chiaro e il traumatico avvio del nuovo anno sui mercati finanziari non è certamente di buon auspicio.

Uno dei temi a cui prestare attenzione è certamente quello del debito. Le 15 maggiori economie emergenti tra il 2009 e il 2014 hanno sperimentato una spettacolare crescita del Pil che è aumentato in media del 48% contro un +6% messo a segno dai Paesi del G20. Un boom alimentato soprattutto dalla benzina del debito.

Dal 2004 al 2014 - calcola il Fmi - il debito societario (banche escluse) negli emergenti è passato da 4mila a 18mila miliardi di dollari con un'incidenza sul Pil arrivata oltre il 70 per cento (+26%). Nella principale economia in via di sviluppo (la Cina) il rapporto tra debito societario e Pil oggi viaggia su livelli superiori del 25% rispetto alla sua media storica. Altri Paesi come il Brasile la Thailandia o la Turchia mostrano anch'essi livelli di «credit gap» superiori al 10 per cento.

L'esplosione di questo debito è direttamente correlata il ciclo ultraespansivo di politica monetaria varato dalla Fed per far fronte alla crisi finanziaria del 2008. I tassi zero negli Usa hanno infatti spinto le banche centrali di tutto il mondo a manovre espansive per contrastare eccessivi apprezzamenti delle loro valute. Si è creato un forte incentivo all'uso del debito. Con i tassi a zero in Europa e negli Usa i grandi asset manager «affamati di rendimento» hanno riversato enormi masse di capitali sugli emergenti. In questo contesto le aziende hanno fatto abbondante ricorso al mercato obbligazionario dove le emissioni si sono moltiplicate.

Il cambio di rotta imposto dalla Fed, combinato con il rallentamento dell'economia cinese e il correlato crollo delle materie prime, ha messo tuttavia a rischio la sostenibilità del fardello accumulato in questi anni. Da una parte i tassi più alti rendono più oneroso rifinanziare il debito, dall'altra il calo dei ricavi effetto del ciclo economico negativo rischia di rendere difficile saldare i creditori. E il problema rischia di ingigantirsi se una parte importante di questo debito è denominato in una valuta forte come il dollaro. Il caso scuola è quello del gigante brasiliano Petrobras, un'azienda travolta dagli scandali di corruzione, dal crollo del prezzo del greggio e alle prese con un un debito (127 miliardi di dollari) denominato in dollari per il 70 per cento. Ma non va troppo bene neppure ad un altro colosso dell'energia: la russa Gazprom la cui percentuale di debito in valuta forte (dollari ed euro) viaggia oltre l'80 per cento.

Finora la “mina” del debito è rimasta sotto controllo. Ma di certo se non si arresterà la fuga di capitali (che la tempesta cinese rischia di amplificare) e non ci sarà un miglioramento delle prospettive macroeconomiche la stretta monetaria sui tassi Usa rischia di aver effetti pesanti. E a questa variabile gli investitori dovranno prestare molta attenzione nel nuovo anno.

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