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Perché il tonfo del petrolio fa bene ai titoli di Stato

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Cause ed effetti

Perché il tonfo del petrolio fa bene ai titoli di Stato

È una settimana che si ricorderà a lungo quella che ha riportato il prezzo del petrolio sotto i 30 dollari al barile: un livello che non si vedeva dal 2004 e che pochi fra gli analisti osavano pensare soltanto qualche mese fa. Ora le previsioni che indicano un greggio pronto a sfondare al ribasso nuove soglie (compresa quella dei 20 dollari) nel breve termine si moltiplicano in rapida serie, a volte anche senza i fondamenti necessari.

Per la verità di fondamentali, intesi come variabili macroeconomiche e canoniche forze di mercato, ce ne sono ben pochi in questa crisi prolungata del greggio. Sulla carta sembra essere il risultato sia di un eccesso di offerta, sia di un rallentamento della domanda e in questo si differenzia dai casi 2008-09 (shock legato essenzialmente al crollo della domanda in un contesto di recessione globale) e dal 1985-86 (sovraproduzione da parte dell'Arabia Saudita) e per questo appare più complesso da decifrare.

Sotto l'aspetto della domanda, però, c'è probabilmente anche qualche mito da sfatare. «Quella cinese è sì in rallentamento nell'ultimo anno, ma viaggia ancora a velocità sostenuta, così come quella per i metalli, e continuerà a farlo anche in futuro fintanto che il governo si è impegnato a raggiungere una crescita economica del 6,5% annuo da qui al 2020», sostiene James Butterfill, Head of Research & Investment Strategy per Etf Securities. Del resto la continua crescita delle immatricolazioni di veicoli in Cina e anche negli altri paesi asiatici dovrà essere anche necessariamente accompagnata dalla richiesta di carburanti.

Le incognite sull'offerta
Ancora più complicata è la situazione sul versante dell'offerta, a maggior ragione perché negli ultimi mesi sembra addirittura sfuggire alle logiche più elementari. Il crollo delle quotazioni ha spiazzato in modo evidente i produttori con i costi marginali più elevati (tipico è l'esempio dello shale oil estratto negli Stati Uniti). Ed è per questo motivo che, secondo le stime della società di consulenza Energy Aspects sarà soprattutto la produzione a stelle e strisce a guidare il calo dell'offerta nel 2016, che sarà anche il primo anno dal 2008 in cui si verificherà una riduzione dell'output Usa. La discesa, già iniziata nel 2015, si amplificherà per Canada, Messico e Colombia, mentre la produzione della Russia e quella del Mare del Nord (grazie a una serie di progetti avviati dalla Gran Bretagna quando il prezzo era a 100 dollari) dovrebbero offrire maggiore resistenza.
Il vero nodo resta però nei Paesi Opec, la cui sovraproduzione negli ultimi mesi è alla base del crollo delle quotazioni ed è destinata a proseguire, anche per l'accelerazione legata al ritorno in piene forze dell'Iran. Qui però la questione è ovviamente più politica che economica, dato che è evidente l'intento dell'Arabia Saudita di spiazzare i produttori al di fuori del cartello e anche di mettere in difficoltà lo stesso Iran, oltre che la Libia.
Non è semplice capire quanto sia ancora possibile tirare la corda su questo fronte. Se infatti è vero che il costo di produzione di un barile di greggio nell'area del Golfo è talmente ridotto da poter sostenere un prezzo sotto i 30 dollari «è soprattutto al breakeven fiscale, il valore collegato al bilancio pubblico e sociale di uno stato, che si deve guardare - spiega Butterfiel - e questo è particolarmente elevato per i sauditi: addirittura 106 dollari al barile». Ryiad sta insomma in realtà pagando a caro prezzo la personale guerra dei prezzi, ma nonostante questo, avverte ancora Butterfiel, «l'Opec è pronto a combattere la propria battaglia almeno fino al 2018».

Un fattore ormai permanente
Da shock esogeno il calo dei prezzi del greggio si avvia quindi a diventare piuttosto un elemento strutturale e con questo i mercati dovranno fare i conti. E se la reazione delle Borse, fortemente correlata in negativo con i movimenti del greggio come si è visto in questi giorni, potrebbe col tempo divenire meno marcata in caso di stabilizzazione dei prezzi energetici (se pur a un livello più basso di quanto si poteva prevedere appena qualche settimana fa) quella dei titoli di Stato appare molto più chiara. Come fa notare Kornelius Purps, strategist di UniCredit, i rendimenti del Bund e le quotazioni del Brent vanno a braccetto e «la debolezza del petrolio creerà uno scenario a sostegno dei titoli di Stato almeno per i prossimi tre mesi»: questo semplicemente perché l'impatto sull'inflazione di un crollo strutturale dei prezzi energetici potrebbe indurre sia la Bce a nuove misure di stimolo, sia la Federal Reserve a rallentare la temuta stretta.
Più che valutare gli impatti futuri si potrebbe però provare anche a immaginare cosa sarebbe stato il mondo senza questo shock petrolifero. «I produttori di greggio e il settore manifatturiero non sarebbero ovviamente finiti in recessione; l'inflazione a livello globale si troverebbe un punto percentuale più in alto, la Fed non avrebbe rimandato il rialzo dei tassi e la Bce non sarebbe stata così espansiva; il deprezzamento dell'euro sarebbe stato meno spettacolare o non ci sarebbe stato del tutto; famiglie e imprese non avrebbero beneficiato dei risparmi sulle loro bollette energetiche», osserva Bruno Cavalier di Oddo Securities. Il mondo, insomma, non sarebbe probabilmente stato migliore.

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