Finanza & Mercati

Il credito italiano in linea con l’Europa

  • Abbonati
  • Accedi
sostenibilità e garanzie

Il credito italiano in linea con l’Europa

Il caso Italia e del suo sistema bancario è una questione che s’agita più sulle pagine dei giornali (e dei telegiornali) che sulle borse. È più fattore di acute polemiche e di allarmismi tra i politici che motivo di particolare cruccio tra gli investitori internazionali. Intendiamoci: il problema esiste, come dimostra il crollo dei titoli, ma non è un caso italiano. La tempesta ha iniziato a montare nel luglio scorso a Wall Street ed è rapidamente dilagata, con maggior virulenza, sui mercati europei. In sei mesi, il settore dei titoli bancari ha perso il 24% negli Usa, il 36% nell’eurozona e il 35% a Piazza Affari, con una accelerazione, da noi, nelle ultime 10 sedute. Ovunque, la caduta del comparto è stata circa il doppio di quella patita dai rispettivi indici generali. Come se i mercati, verrebbe da pensare, paventassero un’imminente crisi del credito e una conseguente recessione, a immagine di quanto si vide nel 2007-08.

Entrambi i timori sembrano eccessivi: in America, dove un rallentamento economico comunque si percepisce; in eurozona, dove la ripresa, pur timida, pare poter continuare. Tuttavia una criticità tutta italiana esiste davvero e, in assenza di iniziative da Roma, da Bruxelles e pure dalla Bce di Francoforte, rischia di deflagrare nei prossimi mesi.

I mercati hanno iniziato ad avvertirla e, oltre alle recenti maggior cadute dei titoli italiani, la s’è vista in uno spread più alto tra Btp e Bund (una risalita di 25 centesimi da inizio anno, per ora) e nel costo dei Cds sul debito dei singoli istituti: quasi raddoppiato in poche sedute e mediamente più alto di 50-60 punti rispetto ai concorrenti francesi o tedeschi. Persino Banca Intesa, che ha ratio patrimoniali superiori a Deutsche Bank (Cet1 al 13,4% contro 11,4), una redditività ben più alta e una copertura complessiva delle sofferenze del 140%, a giudicare dal costo dei Cds, presenterebbe un rischio pari a quello della banca tedesca.

Analizzando i multipli dei titoli bancari italiani non si nota una discriminazione rispetto a quelli d’eurozona. Se si guarda al rapporto tra prezzo e utili attesi, il comparto di Piazza Affari quota leggermente a premio (p/e di 10,8 contro il 7,8 della Francia e il 7,2 in Germania). Anche considerando prezzo e patrimonio netto, i multipli sono sostanzialmente allineati a quelli degli istituti tedeschi e d’Oltralpe. Il difetto è semmai nella redditività poiché, ad eccezione di Intesa, il roe è mediamente più basso. Il problema è nei crediti in sofferenza o semplicemente incagliati che sui bilanci delle banche italiane pesano circa tre volte più che per gli altri istituti europei. Anche valutando gli accantonamenti e le garanzie (reali), il fardello è oltre il doppio delle banche europee.

C’è una spiegazione, anzi ce ne sono parecchie: una burocrazia che frena le procedure d’insolvenza e il recupero dei crediti; un sistema giudiziario che dilata i tempi. Ma soprattutto c’è una zavorra ereditata dalla lunga e pesante recessione dalla quale siamo da poco usciti e che sui bilanci ha accumulato sofferenze per circa 200 miliardi e incagli per altri 150. La maggior virtù degli istituti stranieri si spiega con una miglior tradizione nella gestione del credito, ma soprattutto nel fatto che Francia, Germania e poi la Spagna s’erano per tempo liberate dalla loro montagna di crediti difficili. Caposcuola furono gli Stati Uniti (operazione Tarp), imitati a loro modo da Francia e Germania. La Spagna s’aggiunse più tardi, sebbene al prezzo di vedersi sottrarre un po’ di sovranità in politica economica. Così l’Italia, che si vantava d’aver un sistema bancario più solido degli altri, s’è trovata in difficoltà e cerca, con ampio ritardo e metodi più incerti, di ripercorrere ora la stessa strada dei partner europei.

Certo il bail-in, ossia il cosiddetto salvataggio di Banca Etruria, e il trambusto mediatico che n’è seguito, ha esacerbato gli animi. Ma sarebbe improprio parlare (per ora) di un particolare accanimento degli investitori verso il sistema bancario italiano. A Piazza Affari non s’è colta quella baldanza degli speculatori che 3-4 anni fa fece affossare i titoli del Tesoro, e le vendite allo scoperto sulle azioni delle banche non sono esorbitanti: in ogni caso, inferiori a quelle accumulate su Fca. L’accanimento è generale, sull’intero settore europeo e americano: forse nell’ipotesi di una probabile recessione, forse perché è maturata la convinzione che lunghi anni di quantitative easing avevano spinto troppo le quotazioni. Ma la paura di una recessione, se perseguita con metodo e con insistenza su un settore così delicato come quello del credito, potrebbe alla fine rivelarsi una profezia che si autorealizza.

© Riproduzione riservata