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Se la finanza colpisce l’economia

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borsa, ricchezza, consumi

Se la finanza colpisce l’economia

La frenata dell’economia cinese, il collasso del prezzo del petrolio, la crisi nei Paesi emergenti, l’incertezza geopolitica. E, nel microcosmo italiano, anche una questione bancaria improvvisamente scoppiata in Borsa. Il mix che ha scatenato la tempesta sui mercati finanziari, tale da bruciare 6.592 miliardi di dollari nelle Borse di tutto il mondo in 20 giorni, è ormai noto: troppi nodi sono venuti al pettine tutti insieme. Il punto ora è capire se mercati finanziari così giganteschi possano colpire ancora una volta alla schiena l’economia reale. La domanda da porsi oggi, insomma, è: il crollo delle Borse, se dovesse continuare, potrebbe accentuare la frenata dell’economia globale?

Il rischio c’è, seppur diverso da Paese a Paese, perché i canali di contagio dalla finanza mastodontica al mondo reale non mancano. Il ribasso delle Borse brucia innanzitutto parte della ricchezza delle famiglie, e questo potrebbe a lungo andare pesare sui consumi. Dunque sul Pil. Questo avviene soprattutto nel Paese più finanziarizzato del mondo, cioè gli Stati Uniti. Secondo i dati della Fed, le famiglie oltreoceano hanno una ricchezza netta pari a 85mila miliardi di dollari. Di questi, 20.600 miliardi sono investiti direttamente o indirettamente in Borsa. Contando che Wall Street ha perso il 10% circa da inizio anno, stimare l’impoverimento (anche indiretto) delle famiglie è facile.

È vero che Wall Street ha per anni arricchito gli americani e che 20 giorni di ribassi non cambiano la vita, ma è anche vero che ora la Borsa potrebbe riprendersi qualcosa. Anche perché questa bufera arriva proprio quando i consumi degli americani stavano già frenando: lo si vede, per esempio, dal calo delle vendite di automobili a dicembre. Il problema è poi che negli Stati Uniti i mercati finanziari possono contagiare l’economia reale anche attraverso altri canali. Per esempio quello petrolifero. La grande speculazione al ribasso sul greggio da un lato aiuta i consumatori americani (restituendo loro con la benzina parte dei soldi persi in Borsa), ma dall’altro rischia di avere un effetto negativo sulle tante aziende Usa che estraggono petrolio frantumando le rocce. Secondo Wolfe Research, con il petrolio così basso almeno un terzo di queste aziende potrebbe dichiarare il fallimento entro il 2017. Considerando che il settore petrolifero (incluso l’indotto) rappresenta il 20% dell’industria americana, secondo i calcoli di Patrick Artus di Natixis, si comprende come la speculazione ribassista sul greggio possa avere un impatto molto negativo sul Pil Usa. I danni, insomma, rischiano di superare di gran lunga i benefici.

La situazione in Europa, e in Italia, è un po’ diversa. Da noi, innanzitutto, l’economia non è altrettanto legata alla finanza. Secondo i dati di Bankitalia, le famiglie italiane detengono 64 miliardi di euro di azioni nazionali e 20 miliardi di azioni estere. È difficile sapere quanto, dei 376 miliardi investiti in fondi comuni, siano indirettamente in Borsa. Ma anche considerando che in totale si arrivi a 150 miliardi di euro investiti sui mercati azionari direttamente o indirettamente (su una ricchezza finanziaria totale delle famiglie pari a 3.900 miliardi), una perdita del 15% potrebbe avere bruciato circa 20 miliardi di euro dai portafogli delle famiglie. Nulla rispetto ai numeri degli Stati Uniti, ma pur sempre circa il doppio di quanto il Governo non abbia dato ai consumatori con i famosi 80 euro. Anche da noi, dunque, un certo impatto sull’economia reale potrebbe farsi sentire. Nulla di eclatante, ma neppure nulla di buono.

Italia ed Europa soffrono meno degli Usa anche per la caduta del prezzo del petrolio: essendo il Vecchio continente consumatore di oro nero, il ribasso delle quotazioni è per noi un indubbio vantaggio. Ma gli effetti collaterali potrebbero presto farsi sentire: se soffrono i Paesi produttori, infatti, soffre di riflesso anche l’Europa. Si pensi per esempio al caso della Russia. Petrolio e gas rappresentano il 71% dell’export del Paese: il tracollo dei prezzi, dunque, pesa non poco sull’economia russa. E dato che Mosca è un importante partner commerciale di Italia ed Europa (già fiaccato dalle sanzioni), di riflesso i suoi guai diventano anche nostri. In Italia è poi ancora da valutare l’eventuale impatto della crisi borsistica delle banche: potrebbero alcuni istituti tornare a ridurre il credito all’economia? Difficile dirlo sin da ora, ma di certo questa è un’altra nube che si addensa su una ripresa economica già fragile.

Tutte queste incognite si annidano su economie che nel 2016 dovrebbero trainare il mondo: gli Usa con la loro crescita sostenuta e l’Europa con la sua ripresina attesa da anni. È presto per dire se i crolli di Borsa di questi giorni cambieranno davvero lo scenario economico. Tra l’altro in Europa la Bce continua a pompare benzina monetaria e negli Usa la Fed - pensano in tanti - potrebbe rallentare i rialzi dei tassi. Ma il rischio c’è. E già gli economisti hanno iniziato a rivedere al ribasso le loro volubili stime. Ieri è stata Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale, ad annunciare che i rischi «all’orizzonte sono maggiori di quanto previsto». Per questo l’Fmi ha abbassato le sue stime sul Pil globale per il 2016. Ma anche molte banche d’affari stanno ridimensionando le previsioni, come per esempio Barclays che proprio ieri ha ridotto quelle sulla crescita Usa del quarto trimestre 2015.

Se prevedere il futuro è sempre difficile, è ben più facile individuare il vero problema: i mercati finanziari sono troppo grossi, troppo invasivi, troppo veloci, troppo speculativi per un’economia reale che si muove in maniera diversa. Questa elefantiasi della finanza, che è molte volte più grande del Pil mondiale, è stata una delle cause della grande crisi del 2008. Da allora il problema è aumentato. E tiene in ostaggio l’economia reale. Diceva il finanziere George Soros nel lontano 1987: «I mercati non si limitano a scontare il futuro: concorrono nel crearlo. In certe circostanze, possono avere un effetto diretto sui cosiddetti fondamentali. Questi momenti non sono frequenti, ma quando si verificano i mercati possono diventare distruttivi: per il semplice motivo che possono influire sui fondamentali dell’economia». Quasi trent’anni dopo, queste parole sono più vere che mai.

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