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Credito esaurito per lo shale oil. Arriva l’ora dei tagli …

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Credito esaurito per lo shale oil. Arriva l’ora dei tagli (anche di produzione)

L’affondo del petrolio sotto 30 dollari al barile sembra aver convinto i produttori di shale oil a fare i conti con la realtà. Tre dei maggiori protagonisti del miracolo petrolifero americano - Continental Resources, Hess Corp e Noble Energy- hanno annunciato nuovi, pesantissimi tagli degli investimenti che porteranno, questa volta sì, a un sensibile calo di produzione.

Per Continental il capex sarà più che dimezzato, con una riduzione del 66% (dopo quella del 46% dell’anno scorso) che lo porterà ad appena 920 milioni di dollari. La sua produzione, che nel 2015 era cresciuta di circa un quarto, dovrebbe scendere di 200mila barili equivalenti petrolio al giorno, prevede la società, ossia del 5-9 per cento. Hess - in rosso per oltre 3 miliardi di dollari nel 2015 - sacrificherà invece 330-350mila bg, pari al 7-12%, con un taglio degli investimenti del 40%. Nel 2015 aveva già ridotto le spese in conto capitale del 29%, ma la produzione era salita del 19%. Noble Energy infine dimezzerà le spese , oltre ad abbassare la cedola trimestrale da 18 a 10 cents per azione, ma non prevede variazioni dell’output, che è intorno a 390mila bg.

Il cambio di marcia nelle strategie, che potrebbe essere presto confermato da altri produttori, ha contribuito a sostenere le quotazioni del greggio, nonostante le scorte Usa siano salite di altri 8,4 milioni di barili al nuovo record storico di 494,92 mb. L’effetto rialzista più importante - che ha fatto chiudere il Brent a 33,10 $ (+4,1%) - è comunque da attribuire alle rivelazioni di Nikolai Tokarev, ceo di Transneft: martedì c’è stata una riunione al ministero dell’Energia russo, in cui esponenti del governo e delle imprese del settore avrebbero deciso incontri con l’Opec per valutare azioni congiunte, compreso un possibile taglio di produzione.

Il pessimo esordio dei mercati nel 2016, col petrolio crollato di oltre il 20% in un paio di settimane, ha inflitto sofferenze insostenibili ai produttori di shale oil, che avevano sorpreso chiunque - a cominciare dall’Opec - per la capacità di resistere alle difficoltà.

I frackers americani l’anno scorso hanno ridotto i costi estrattivi fino al 40% in alcune aree e la produttività per pozzo, secondo l’Energy Information Administration, è aumentata del 48% (in gran parte perché le trivelle sono rimaste in azione solo nei terreni più generosi). Fare di meglio è difficile: non a caso da ottobre non ci sono più stati progressi. E il petrolio, agli attuali livelli di prezzo, copre a malapena la metà dei costi dell’industria, aveva avvertito pochi giorni fa Harold Hamm, fondatore e ceo di Continental, in un’intervista al Wall Street Journal.

I produttori Usa, secondo Hamm, stanno frenando le estrazioni a un ritmo tale che quest’anno l’output potrebbe scendere di 1,6 milioni di barili al giorno. Le previsioni governative, più caute, indicano una riduzione da 9,4 mbg in media nel 2015 a 8,7 mbg nel 2016.

È probabile che parecchie compagnie seguiranno l’esempio di Continental, Hess e Noble, annunciando tagli drastici nei prossimi giorni. Altre dichiareranno bancarotta, dopo le 42 che hanno già fatto questa fine nel 2015. Il flusso di denaro facile che per anni aveva sostenuto il settore si è infatti prosciugato. Le emissioni nel settore sono crollate: nel secondo semestre 2015 le società Usa di produzione ed esplorazione hanno raccolto appena 3,3 miliardi di $ con nuove azioni e 4,6 miliardi con obbligazioni secondo Dealogic. Nella prima metà dell’anno c’erano state rispettivamente emissioni per 14,6 e 23,9 miliardi.

Dal private equity sono invece arrivati solo 3,6 miliardi in tutto il 2015 stima Prequin, a fronte di 57 miliardi raccolti dai fondi (che probabilmente aspettano di raccogliere a poco prezzo i cocci del settore).

La resa dei conti a questo punto sembra imminente. Il settore è ormai percepito come rischiosissimo: negli Usa, avverte Standard & Poors’, il 72,6% dei bond spazzatura nel settore Oil & Gas è nella categoria “distressed”, che implica un’insolvenza quasi certa (solo il Mining sta peggio, con l’81,3%).

Il disastro dello shale oil ha intanto contagiato anche altri settori: i rendimenti dei junk bond Usa sono saliti oltre il 19% e questo mese le emissioni obbligazionarie (investment grade compreso) nel mondo ammontano solo a 333 miliardi di $, il minimo da 11 anni.

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