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Costo del debito alle stelle per le società dello shale oil

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Costo del debito alle stelle per le società dello shale oil

Per le indebitatissime società dello shale oil procurarsi denaro non è mai stato così caro e così difficile. I rendimenti delle obbligazioni spazzatura emesse dal settore hanno superato per la prima volta nella storia il 20%, un livello ben oltre quello toccato al culmine della crisi del 2008-2009 (all’epoca si era arrivati al 17%). Dallo scorso giugno i bond in questione hanno perso 75,6 miliardi di dollari di valore, calcola Bloomberg. E il terremoto sta provocando ripercussioni anche su altri settori, che col petrolio non hanno niente a che fare, senza risparmiare del tutto nemmeno le obbligazioni “investment grade”, ossia di società non classificate come a rischio insolvenza.

Le porte del credito si sono ormai chiuse quasi del tutto per i “frackers” americani. Il problema non riguarda solo  i bond, che pure erano stati la loro prima fonte di finanziamento, con emissioni per 241 miliardi di dollari tra il 2007 e il 2015 secondo Dealogic. L’accesso ai mercati azionari è diventato altrettanto difficile e anche banche e fondi di private equity sono diventati sempre più restii.

Il 9,5% dei prestiti che gli istituti di credito Usa hanno concesso al settore (che in tutto ammontano a 9.500 miliardi di dollari) erano stati classificati come non performanti, in un’indagine realizzata a novembre dalle autorità di vigilanza. Bank of America stima che le già martoriate banche europee rischino potenziali perdite per 27 miliardi di dollari in relazione a crediti concessi a società energetiche.

L’anno scorso sono andati in bancarotta ben 42 produttori di petrolio e gas americani, con debiti totali di 17 miliardi di dollari. A questi si aggiungono un’altra quarantina di piccole società che operano nei servizi all’industria petrolifera, in questo caso con debiti per 5 miliardi, secondo lo studio legale Haynes & Boon, che sta monitorando il fenomeno e che prevede un’intensificazione dei ricorsi al Chapter 11.

Finora le difficoltà finanziarie non si sono tradotte in un sensibile ribasso della produzione di shale oil: anzi, spesso le compagnie hanno accelerato le estrazioni per riuscire ad onorare gli interessi sul debito. Inoltre, anche durante le procedure fallimentari i pozzi vengono in genere mantenuti attivi. «Le bancarotte tuttavia finiranno sicuramente per mettere un freno alle trivellazioni - ha dichiarato Patrick Hughes, managing partner di Haynes & Boone, alla testata online The Fuse - Le compagnie cercheranno di proseguire l’attività, ma non potranno più svilupparla, quindi ci sarà un naturale declino».

Il Chapter 11 sembra ormai un destino segnato per molti protagonisti dello shale, compresi alcuni pesi massimi come Chesapeake Energy. Il secondo produttore di shale gas negli Usa ha assicurato che non sta andando in quella direzione, dopo che voci su una ristrutturazione del debito l’hanno mandato a picco a Wall Street (si veda il Sole 24 Ore del 9 febbraio). Ma Standard & Poors’ le ha di nuovo tagliato il rating, a CCC, spiegando che il suo debito - pari a 12 volte gli utili attesi - è ormai diventato «insostenibile». S&P è scettica sulla possibilità che Chesapeake trovi una via di uscita:  il mercato dei capitali, spiega, è ormai quasi off limits per le società energetiche e questo complica anche la ricerca di un acquirente per eventuali nuovi asset da mettere sul mercato.

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